“Viene a trovarmi Simone Signoret” di Bijan Zarmandili
di Chiara Gulino / 18 ottobre 2013
Tre. Due. Uno. Ciak. Azione.
Attraverso le inferriate di un’angusta finestra di una cella penetrano i raggi del sole facendo danzare insieme i granelli del pulviscolo con gli insetti, uniche presenze vive, oltre al prigioniero. In questa scena di insopportabile solitudine coatta, la cinepresa stacca sul primo piano di Ciangis Salami, protagonista e voce narrante di Viene a trovarmi Simone Signoret (Nottetempo, 2013) dello scrittore iraniano Bijan Zarmandili.
Ciangis è un onesto e mediocre regista la cui unica colpa è quella di non poter liberamente esercitare la propria fantasia nell’Iran dell’ayatollah Khomeini senza cadere vittima della censura o essere accusato di «ammiccamenti al sionismo»: «Del mestiere di cineasta mi rimane l’ossessione per la luce: la facevo cambiare decine di volte prima di trovare quella giusta per girare la scena. E alla fine quella giusta era sempre opaca, spenta».
È nella realtà penosa e asfissiante del carcere di Evin, non molto diversa dalla realtà della capitale Teheran, «ormai una città senz’anima, avendo perso quel poco di fascino orientale che possedeva quando ha cullato l’illusione di potersi trasformare in una metropoli moderna», che l’ormai vecchio regista tenta di sopravvivere affidandosi all’immaginazione, montando nella sua testa le scene di un film destinato a dare gloria, nella sua aspirazione, al cinema iraniano.
È il pretesto e l’espediente di cui si serve lo scrittore per ripercorrere gli anni della monarchia autoritaria dello Scià di Persia Reza Khan, fondatore della dinastia Pahlavi. È in quella atmosfera altrettanto liberticida che Ciangis e il suo amico Elias vissero la loro infanzia e adolescenza.
Il film dovrà soffermarsi in particolare sul finire degli anni Settanta quando, mentre a Teheran si susseguivano manifestazioni di protesta e scioperi, a Parigi un gruppo di opposizione preparava la rivoluzione dell’Imam Khomeini. È in questo clima che saranno girate le scene di una storia d’amore impossibile che, come le più classiche storie d’amore impossibili, si nutre degli inevitabili ostacoli creati dalle differenze di religione, la storia fra una ragazza mussulmana, Simin, figlia del colonnello Mehrabi, e di un ragazzo ebreo, Elias, figlio di un facoltoso imprenditore. Una storia che non potrà che finire in tragedia.
Un soggetto drammatico in cui si insinuano digressioni e ricordi richiamati non in modo sistemico ma per via scorciata, analogica, attraverso quadri o scene, non tanto e non solo per intrattenere con una storia ma per dare un senso alla complessità circostante, alla vita, alla fedeltà di una donna, la moglie Ozra, scelta più per la sua normalità e affidabilità che per la bellezza.
Sarà ancora e sempre Ozra ad attenderlo all’uscita da Evin, dopo due anni di carcere, con la sua immancabile sigaretta in bocca, proprio come Simone Signoret nel film con Jean Gabin, Una giornata amara. E solo allora, dopo i titoli di coda, si potrà scrivere la parola Fine.
(Bijan Zarmandili, Viene a trovarmi Simone Signoret, Nottetempo, 2013, pp. 208, euro 14)
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