[RomaFF8] Giorno 7: “Take Five” e “Il paradiso degli orchi”
di F. Vannutelli e I. Accinni / 15 novembre 2013
Il secondo film italiano ad arrivare in Concorso ufficiale all’ottava edizione del Festival Internazionale del Film di Roma è una storia delinquente ambientata a Napoli con attori che hanno esperienze dirette di vita carceraria e criminalità. Take Five, come lo standard jazz del Dave Brubeck Quartet, è l’opera seconda di Guido Lombardi, già messosi in evidenza due anni fa con un’altra storia di malavita, Là-bas, che si portò via due premi dalla Mostra di Venezia. Se nel primo film i protagonisti erano immigrati africani di Castelvorturno, i cinque di Take Five sono tutti napoletani doc che si ritrovano a formare una banda per rapinare il caveau di una banca e svuotare le cassette di sicurezza.
Hanno tutti precedenti più o meno grandi. Sasà era uno scassinatore, ma un infarto l’ha portato a fare il fotografo di matrimoni, Ruocco era un buon pugile, ma ha spaccato una sedia in testa a un arbitro, Gaetano c’è stato tanto tempo dentro, e ora fa il ricettatore. È lui a mettere su il gruppo chiamando anche lo Sciòmen, un ladro che un tempo era un pezzo grosso nel quartiere e ora sta sotto antidepressivi. Solo Carmine, l’idraulico che ha proposto il colpo, non è mai stato arrestato, ma ha una buona ragione per mettere le mani sui soldi: ha un debito di gioco enorme con un boss della camorra che gli ha già fatto capire di essere prossimo a perdere la pazienza. La rapina riesce ma Gaetano sparisce con i gioielli rubati e i quattro rimasti lo aspettano per ore nella loro base con un nervosismo sempre più crescente.
Probabilmente nessuno aveva mai creduto che sarebbe stato possibile conciliare I soliti ignoti e Le iene, il caper movie all’italiana e il pulp alla Tarantino. Lombardi ci ha provato e si può dire che tutto sommato ci è riuscito. Perché Take Five parte divertendo con questa improbabile banda di rapinatori che impara a conoscersi per tingersi poco a poco di nero e di rosso sangue.
Con la fotografia cupa di Francesca Amitrano, Lombardi confeziona un film mai banale, citazionista (con tanto di stallo alla messicana) e divertito, che si regge su un cast azzeccato e perfettamente in parte (menzione speciale per lo Sciòmen, Peppe Lanzetta) che dà il meglio di sé nell’attesa alla base, dall’andamento quasi teatrale.
Con Il paradiso degli orchi, presentato nella sezione Fuori concorso, il regista francese Nicolas Bary trasferisce sul grande schermo uno dei romanzi cult di Daniel Pennac, il primo della saga dei Malaussène.
Il film racconta del quotidiano insolito di una famiglia a dir poco strana che vive con un senso di felicità perpetua nel proprio caos anarchico e devastante. A questa normalità relativa si viene ad aggiungere una storia macabra fatta di torture, omicidi e scomparse di bambini, descritta con la stessa delicata leggerezza di toni che attraversa tutta la trama.
Nicolas Bary ha vinto la scommessa con un romanzo fondamentale per intere generazioni rimanendo fedele alla prosa letteraria di Pennac, tirando fuori una tragicommedia di tutto rispetto. Veniamo proiettati direttamente nel caos regnante all’interno di quella che è ormai una famiglia leggendaria. Personaggi unici, uno humor pungente, a volte freddo, mentre un’inchiesta rocambolesca struttura la trama, tra il poliziesco e la commedia, del film. Per chi è cresciuto con la saga Malaussène, i personaggi barocchi, marginali, improbabili che si muovono tra i vicoli di una Belleville malfamata, messi in scena da Bary sono la realizzazione di fantasie che lo hanno accompagnato per tutta l’adolescenza. Il regista e i suoi sceneggiatori si mantengono sempre fedeli, quasi reverenti, al romanzo originale e alla scrittura di Pennac.
Piccola critica da fare riguarda il politically correct che l’adattamento cinematografico si trascina dietro. Le mille coloriture che dipingono i protagonisti della famiglia Malaussène, le differenti sfaccettature nelle ambientazioni, le situazioni assurde presenti nel romanzo non riescono ad essere riprodotte sullo schermo, mancano di profondità, dando un leggero senso di incompiutezza a quello che rimane pur sempre un ottimo adattamento cinematografico.
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