“La scimmia sulla schiena” di William S. Burroughs

di / 23 novembre 2013

Padre spirituale della Beat Generation, scrittore e saggista, William Seward Burroughs è una delle figure più controverse della letteratura del Novecento. Uxoricida, omosessuale dichiarato e sperimentatore di ogni sorta di sostanza, legale o meno, la sua critica rabbiosa e ironica svela la finzione e la moralità grottesca del secolo scorso.

Junkie: Confessions of an Unredeemed Drug Addict, o nella traduzione italiana La scimmia sulla schiena, è il primo libro dell’autore pubblicato nel 1953 negli Stati Uniti. Da molti critici definito un saggio sulla dipendenza, scevro da qualsiasi forma di esaltazione o demonizzazione della sostanza, in questo libro Burroughs descrive in maniera clinica gli effetti delle droghe che sperimenta, grazie anche agli eccellenti studi di Medicina.

Il suo alter-ego, William Lee, si muove in un sottobosco di consumatori di marijuana, barbiturici, anfetamina, codeina, cocaina, morfina ed eroina sullo sfondo dell’America puritana e conservatrice degli anni ’50. Ne viene fuori un racconto preciso che mette a nudo, forse per la prima volta in maniera esaustiva, la lenta caduta nella tossicodipendenza: «Il tossicomane, il più delle volte, crede di condurre un’esistenza normale e pensa che la droga sia un fatto incidentale. Non si rende conto che, pur svolgendo le sue attività estranee alla droga, sta scivolando lungo la china. Solo quando gli viene tagliata la fonte dei rifornimenti capisce quale importanza abbia la droga per lui».

In un avvicendarsi di tentativi di disintossicazione e ricadute, nei quali gli effetti dell’uso e dell’astinenza sono narrati in maniera scientifica, William Lee racconta la droga «non come mezzo per intensificare il godimento della vita» ma come modo di vivere. Scritto in Messico nel 1951 Junkie è l’unico libro in cui Burroughs non usa la tecnica del cut-up e il suo stile risulta semplice anche se con un ritmo narrativo frastagliato e irregolare. Siamo dinanzi a una narrazione personale e allo stesso tempo antropologica di uno stile di vita che, in quegli anni, non è ancora di massa e che tuttavia già raccoglie un numero considerevole di individui che esplicano la propria esistenza nella droga e che per essa vivono.

In modo brutale e cinico, Lee racconta come «il vizio prende piede, le altre cose alle quali si interessava l’intossicato si svuotano d’ogni importanza. La vita si riduce alla droga; una dose, e già si guarda con ansia a quella successiva, ai nascondigli e alle ricette, agli aghi e alle pompette contagocce». Un barlume di speranza ci viene fornito dalla terapia di disintossicazione a base di apomorfina; tuttavia Burroughs in quel momento è già in partenza alla ricerca dello yagè, droga esotica che dovrebbe favorire la telepatia, in una continua ricerca di sperimentazione degli stati alterati e della loro descrizione.

Un’opera prima che Burroughs scrisse in seguito alla morte della moglie, per trovare qualcosa da fare ogni giorno, e che tuttavia rimane impressa nella storia della letteratura come la prima descrizione, minuziosa, spietata e non edulcorata, della tossicodipendenza.


(William S. Burroughs, La scimmia sulla schiena, Rizzoli, 1962)

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