“Città d’ombra” di André Aciman
di Martina Baratta / 2 dicembre 2013
Aciman è uno di quegli scrittori che vivono di ricordi e per i ricordi, dal momento che sono questi ultimi a plasmarne le opere: Città d’ombra (Guanda, 2013) è infatti un romanzo di memorie e riflessioni, scritto dalla penna di un uomo che ancor prima di essere scrittore è un esule, indeciso e al contempo incapace di scegliere a quale angolo del mondo appartenere.
In un romanzo in cui a farla da padrone è il resoconto – sempre minuzioso e sviluppato con grande proprietà di linguaggio – di ricordi appartenenti a un passato che continua a scontrarsi con il presente, Aciman rievoca la sua Alessandria d’Egitto, alla quale ha dedicato il suo libro di memorie più famoso dal titolo Ultima notte ad Alessandria e i sentimenti provati nei confronti di quelle città in cui ha vissuto: l’amore-odio per le strade di Roma che esplorava da solo scoprendo scorci sconosciuti persino ai turisti, l’interesse per la raffinatezza della Parigi di Baudelaire, Monet e le opere d’arte nascoste nelle strade, la decisione finale di stabilirsi nella movimentata New York.
Ognuna di queste città si trasforma in un quadro dotato di un’anima, in cui le strade respirano e si vestono di colori, frequentate da personaggi comuni come una commessa di supermercato o una zingara all’angolo, che nonostante il tempo passato vivono ancora tra i ricordi con le stesse identiche tinte e fragranze.
Il filo conduttore che pervade l’intero il romanzo è la nostalgia, sentimento sviscerato da Aciman in tutte le sue sfaccettature: da quella che suscita un senso di impotenza a quella che congela volti, nomi e facciate di palazzi da riscoprire durante un viaggio di piacere in quelle stesse strade che una volta hanno visto la tua infanzia sbocciare in adolescenza.
L’autore è uno straniero in terra altrui e questa sua caratteristica che al contempo potremmo definire una croce lo accompagna ovunque, segnandolo a vita con l’impossibilità di trovare un posto da chiamare casa. Ogni luogo che il giovane Aciman ha visitato o nel quale ha vissuto altro non è stato che un angolo di mondo minuscolo in cui sapeva di non voler mettere radici: nonostante si sia costruito una famiglia e abbia scelto l’America come fissa dimora, l’unica conclusione possibile per trovare il proprio posto nel mondo è abituarsi all’idea che nessun posto ti appartiene, e al contempo ogni posto può appartenerti.
Il discorso vale per Roma così come Parigi, vale per tenere vivi i ricordi più malinconici, come quelli – i più sofferti – dell’infanzia trascorsa ad Alessandria. In ognuno di questi luoghi, quando non si riesce a stabilirsi, ci si può comunque illudere di essere altrove e perdere la propria identità, ricostruendone un’altra nuova di zecca. Alessandria rimane sempre e comunque il centro di quel mondo che Aciman ha dovuto abbandonare, a causa delle sue origini semite, e tutte le città che vengono dopo di essa non sono altro che un luogo di costrizione, in cui l’autore si è sentito prima rigettato e ancora più esule e solo in seguito ha accettato che strade a lui sconosciute lo guidassero attraverso quelle meraviglie sempre nuove che ogni luogo del mondo possiede.
Il messaggio di Aciman è semplice, anche se incastrato in una scrittura che per molti potrebbe risultare difficile perché minuziosa e descrittiva: non amiamo mai le cose in sé, ma il modo in cui si mostrano ai nostri occhi. Lo stesso meccanismo per cui le città vissute da emigrato diventano ricordi nostalgici di luoghi amati lentamente e solo dopo tanto tempo, perché quando li incontri non sono che luoghi stranieri e ostili odiati anche solo perché, osservando il cielo, capisci di essere lontano da una patria in cui non farai mai più ritorno.
(André Aciman, Città d’ombra, trad. di Valeria Bastia, Guanda, pp. 270, 18 euro)
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