“Storia di una vedova” di Joyce Carol Oates
di Michele Lupo / 6 gennaio 2014
Son pochi (poche) al mondo gli scrittori (le scrittrici ancor meno) che possono permettersi un libro come questo di Joyce Carol Oates. Un memoir che dal titolo, Storia di una vedova (Bompiani, 2013), non prometterebbe nulla di buono, soprattutto per i lettori (e le lettrici?) che guardano al profondismo dei doloristi per contratto o disposizione naturale come alla peggiore iattura della (pseudo)letteratura contemporanea.
Si dice – e bene – in questi casi che la semplicità, la riduzione all’essenziale di ciò che davvero conta in una vita, è il frutto di una sudata, conclusiva maturità stilistica (etica?). A maggior ragione vale per una scrittrice versatile (anche negli esiti) come la Oates. Storia di una vedovaracconta la morte (e le successive gravose prove di sopravvivenza in proprio) del marito Raymond Smith, direttore editoriale e compagno col quale Oates aveva anche interessi essenziali in comune scambiati inmezzo secolo di vita.
Siamo nel 2008 in una mattina di febbraio, la scrittrice dopo le prime resistenze del marito lo accompagna al pronto soccorso. Si trattava solo di una polmonite ma nessuno dei due immagina che proprio al Princeton Medical Center l’uomo sia destinato a contrarre un’infezione letale. Nello splendido attacco, l’assurdo della vita e il tragico del morire invischiati nel quotidiano più straccione sono già tutti lì: la Oates nel suo andirivieni dall’ospedale è sempre di corsa, affannata, angosciata per le condizioni di salute di Ray; lascia la macchina dove e come può. Ha il cuore in tumulto ma «proprio come in quella “parabola” di Kafka nella quale la verità più profonda e devastante della vita di un individuo gli si rivela accidentalmente – e casualmente – da un passante», così, ciò che la fa vacillare è un biglietto trovato sotto il tergicristallo: «impara a parcheggiare, stupida troia».
Con la tragedia incombe da subito lostato d’allarme che paralizza, il senso di una resa dei conti che non può essere evitata con nessuna menzogna “spirituale”. Notevole è la capacità della scrittrice di stringerla sulla finitezza banale del quotidiano, del corpo instabile che resta, delle incombenze da sbrigare. Ha detto in un’intervista: «Quando cadiamo negli abissi del dolore, niente ci è davvero di conforto, tranne forse gli amici e i parenti più stretti, quelli incommensurabilmente. Quel tipo di sofferenza assomiglia a una malattia, è qualcosa di totalmente fisico».
Sbalorditivo anche il coraggio – oggi – di scrivere che «la moglie è la persona eletta a esprimere allarme, paura, preoccupazione: è lei che si vota al pianto». Non so chi sottoscriverebbe una frase del genere. Certo non le bacchettone dell’indifferenziazione sessuale secondo le quali il principio che “tutto è cultura” dovrebbe consentire prima o poi ai maschietti di partorire. La Oates, una donna che ha fatto la storia della cultura americana, mostra un’abissale distanza dall’idiozia ideologica che oggi impedisce a molti/e anche di decidere sul senso della propria morte (cretineria “progressista” e infantile bisogno di ostentare una direzione opposta vanno a braccetto). L’autrice di Blonde scrive mostrando il versante femminile di una storia (anche esemplare) che sotto le dita di Philip Roth avrebbe avuto una tonalità più asciutta e meno romantica: a chi scrive più cara ma non necessariamente più seria (un pudore stilisticamente robusto che trattiene e non fa mercimonio di un dolore privato in questi anni è riuscito a Philip Forrest, specie nel primo “romanzo” fra quelli legati alla morte della figlia, Tutti i bambini tranne uno).
La Oates si spoglia di tutto se non – legittimamente – dei propri sentimenti. Ma riesce a farlo fuori dal mercato del falso, del sublime posticcio da pila d’ingresso nei grandi stores. Che di questi tempi…
(Joyce Carol Oates, Storia di una vedova. Memoir, trad. di Giuseppe Bernardi, Bompiani, pp. 604, euro 16)
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