“The Counselor – Il procuratore” di Ridley Scott
di Francesco Vannutelli / 10 gennaio 2014
C’era grande attesa per l’esordio come sceneggiatore dello scrittore statunitense Cormac McCarthy dopo il successo dei precedenti adattamenti dei suoi romanzi, Non è un paese per vecchi su tutti. La regia di Ridley Scott, il cast pieno di grandi nomi sembravano presagi positivi per The Counselor – Il procuratore (discutibile, o quanto meno bizzarra, la scelta del sottotitolo italiano, visto che counselor vuol dire a tutti gli effetti “avvocato” nel sistema giuridico statunitense, e che di procuratori, nel film, non se ne vedono), eppure qualcosa non funziona.
Si inizia a tutta velocità, con una moto sportiva che taglia il confine tra Messico e Stati Uniti, poi un camion di rifiuti viene caricato di droga in uno scomparto segreto, mentre Javier Bardem e Cameron Diaz osservano i loro ghepardi cacciare lepri nelle piane texane. Nel frattempo, Penélope Cruz e Michael Fassbender, il counselor del titolo, sono a letto tra le lenzuola bianche a scambiarsi frasi di amore carnale. Si amano, lui la vuole sposare e per questo vola ad Amsterdam per comprarle un diamante. Non basta, vuole garantirle una vita di ricchezze enormi, per questo si accorda con Bardem, suo socio e amico, per collaborare con i cartelli messicani per la distribuzione della droga caricata sul camion. Valore complessivo: più di venti milioni di dollari. Il loro intermediario è Brad Pitt, che conosce gente oltre confine e a differenza di Fassbender è abituato a trattare questo genere di affari. Tutto sembra andare, poi però qualcuno si mette in mezzo, riesce ad appropriarsi del camion. Il cartello recupera il carico ma vuole comunque vendetta su Bardem, Pitt e The Counselor.
L’apparente solidità della trama di raggiri non riesce a svilupparsi in maniera coerente e tesa. Questo è il limite più grande di The Counselor. È evidente, o quanto meno è lecito supporlo, che la grande capacità di scrittura di McCarthy si ferma alla forma romanzo e non riesce a passare direttamente sul grande schermo senza la mediazione di sceneggiatori esperti.
I consueti temi della scrittura mccartiana sono presenti ed evidenti sin dall’ambientazione texana e dalle scene di caccia, preludio alla spietatezza dei personaggi. «Il cacciatore uccide sempre per giocare», diceva il Buffalo Bill degregoriano. Qui non è tanto la caccia in sé a essere un gioco, ma l’omicidio e la morte entrano a far parte di un sistema basato su un codice preciso in cui a torto equivale violenza, a inadempienza brutalità.
I dialoghi sono pieni di considerazioni alte sul senso del male, della vita, della morale e su come l’amore possa condizionare le scelte. Ogni parola o scambio dei primi venti minuti fornisce un indizio su quello che sarà lo sviluppo successivo, se non della trama, almeno del senso che McCarthy vuole dare ai fatti. Ciò che emerge, e vale oltre il film ponendosi come lettura simbolica e universale, è una visione spietata dell’uomo e delle sue azioni a cui nessuna autorità superiore è in grado di opporsi, né la polizia, praticamente assente in tutto il film, né la chiesa, chiamata dalla Malinka di Cameron Diaz ad ascoltare in confessione una vita di perdizioni sessuali che costringono il prete alla fuga.
Il livello fin troppo alto della scrittura non riesce a legarsi a personaggi che sono poco più che abbozzati, totalmente privi di complessità e struttura psicologica, sostanzialmente piatti. La caratterizzazione fisica quasi caricaturale di Bardem e Diaz (capelli sparati di gel e abbronzatura arancio per lui, tatuaggio maculato e unghie metalliche per lei, a rimarcare lo spirito predatorio, qualora fosse necessario) è isolata e finisce per risultare solo grottesca, così come l’incomprensibile racconto autoerotico di Malinka con cui Bardem intrattiene Fassbender. La magniloquenza delle riflessioni stona nella bocca dei personaggi e non si concilia con la trama che poco ha di originale e che non riesce ad essere coesa, serrata, ma che finisce piuttosto per sfilacciarsi in incoerenze e approssimazioni.
Continuando il suo percorso tra i vari generi, Ridley Scott non riesce a fornire a McCarthy quel bagaglio di esperienza in grado di correggere la scrittura, lasciando anzi libero sfogo alla verbosità in piena, finendo, come già accaduto in forme diverse con il deludente, per usare un eufemismo, Prometheus, per essere schiacciato dalla sceneggiatura.
(The Counselor – Il procuratore, di Ridley Scott, 2013, thriller, 120’)
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