“A proposito di Davis” di Joel e Ethan Coen
di Francesco Vannutelli / 7 febbraio 2014
Grand Prix della giuria all’ultima edizione del Festival de Cannes per A proposito di Davis, omaggio dei fratelli Coen alla scena folk del Greenwich Village alla vigilia dell’esplosione, prima che Bob Dylan aprisse al grande pubblico, quando al Gaslight Cafe di New York ci si esibiva per i soldi raccolti nel cestino delle offerte.
Inizia dal Gaslight la storia di Llewyn Davis, folksinger in cerca di riconoscimento e autonomia dopo che il suo partner musicale ha deciso di buttare via carriera e vita dal Washington Bridge. Davis non ha una casa, dorme sul divano di chi capita, senza un soldo in tasca e senza nemmeno un cappotto con cui combattere il freddo dell’inverno. Il suo manager è un vecchio sordo, ha molti amici disposti ad aiutarlo, ma in un modo o nell’altro finisce sempre per rischiare di perderli. Forse la soluzione è a Chicago, da un grosso produttore che inizia ad assistere musicisti folk, o forse deve lasciare tutto, rinunciare ai sogni di gloria musicale e accettare l’esistenza, non vita, che già era stata di suo padre e tornare nella marina mercantile.
Libero e indipendente nella percezione di sé, ma proprio per questo assolutamente non autonomo, come il gatto che suo malgrado si porta appresso, Davis vaga cercando di definire quel domani che si rifiuta di concepire con il pensiero. Abituato a vivere alla giornata, integralista nella sua idea di musica, non sfrutta le occasioni che gli capitano accontentandosi dell’immediato, rinunciando alle ricche royalties di un brano leggero per incassare subito un assegno.
A tredici anni da Fratello dove sei? i Coen tornano a guardare direttamente a Ulisse e al suo vagabondare, sia così come lo ha descritto Omero sia, soprattutto, alla versione di James Joyce. Davis si imbarca in un viaggio circolare alla ricerca di stesso in cui il mare, ironia della sorte, gli è precluso dalle carte e le sirene non cantano dagli scogli tra le onde, ma sul palco di locali fumosi e bui. Accompagnato dallo spirito guida del gatto, aperto a molteplici letture simboliche (l’ambizione, il compagno defunto, il padre), il cantante dei fratelli Coen rimbalza per New York e gli Stati Uniti cercando una casa verso cui fare ritorno, mettendo incinta donne, anche quelle degli amici, e lasciandole sole di fronte all’aborto, insultando quelli che ci provano come lui e cercando un contatto con un padre malato con cui rifiuta di essere identificato nel mondo della semplice esistenza per continuare a inseguire un’idea di vita che è costante coazione a ripetere.
Ispirato in parte alla vera biografia del folksinger Dave Von Ronk e sorretto da una dolce nostalgia per l’epoca d’oro della musica nel Village, A proposito di Davis è il nuovo ritratto, amaro e ironico, che i fratelli Coen consegnano al cinema di un perdente a tratti insopportabile nel suo ritenersi eterna vittima senza la minima responsabilità. Dopo la grandezza dell’ultimo Il Grinta, i Coen tornano ad accompagnare il proprio protagonista in una dimensione più intima e concentrata, mostrandolo in tutta la sua bruttura e grandezza. È anche un omaggio all’arte e agli artisti, a chi fa quello in cui crede senza badare al resto, a chi senza essere ricordato e riconosciuto ha aperto la strada al successo degli altri, a chi, come Davis, si è trovato a dividere il palco con un Bob Dylan ancora sconosciuto. «Non ci vedo dei soldi in quello che fai», lo liquida il produttore di Chicago. Probabilmente Davis lo sa da solo, ma gli sta bene così.
Troppo complicato per colpire l’Academy, si è portato a casa solo due nomination tecniche per la fotografia di Bruno Delbonnel e per il sonoro.
(A proposito di Davis, di Joel e Ethan Coen, 2013, drammatico, 105’)
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