“Monuments Men” di George Clooney

di / 14 febbraio 2014

Quinta regia per George Clooney che, con l’aiuto in scrittura e produzione del sempre sodale Grent Heslov, dirige un cast di grandi nomi in Monuments Men, ricostruzione in chiave di commedia della vera storia dell’esperto di arte di Harvard George Stout.

Mentre la seconda guerra mondiale lascia bruciare i suoi ultimi fuochi europei durante l’avanzata congiunta statunitense e sovietica, lo storico d’arte Frank Stokes ottiene il permesso dal presidente, e comandante in capo, Roosvelt, di mettere su un’improbabile compagnia di professionisti non della guerra ma delle belle arti (architetti, professori, mercanti), con l’eccezione di un pilota britannico e un soldato ebreo tedesco facente funzione di interprete, per aggirarsi nelle varie zone di guerra alla ricerca di monumenti e patrimoni artistici da salvare e salvaguardare dalla ritorsione nazista (l’ordine del Reich è, in caso di sconfitta, di bruciare tutto) e dall’approssimazione degli alleati, già rei di aver raso al suolo l’abbazia di Montecassino, danneggiato il Cenacolo e minacciato fin troppo Firenze e i suoi tesori.

Nel cinema di Clooney, ormai da anni cineasta totale a pieno titolo (è l’uomo ad aver ricevuto il maggior numero di nomination in differenti categorie all’Oscar: attore protagonista e non, sceneggiatore originale e non, regista e miglior film), Monuments Men si piazza più vicino alla commedia di In amore niente regole che al cinema politico di Good Night, and Good Luck o dell’ultimo Le idi di marzo. Pur confrontandosi ancora una volta con la storia, Clooney la inquadra al di fuori, almeno fino a un certo punto, di ottiche ideologiche e smaccatamente politiche concentrandosi sul fine ultimo, e messaggio di fondo, della preservazione dell’arte a ogni costo come opera dell’ingegno e della bellezza umana anche in mezzo all’orrore.

È una lezione importante, da non trascurare, in cui vibra la genuina e autentica stima per uomini di studio che misero la propria vita in pericolo per salvare la traccia su tela o marmo o tavola della possibilità dell’arte umana. Siamo, in qualche modo e con toni diversi, dalle parti di Salvate il soldato Ryan. Se nel film di Spielberg la domanda era se avesse senso mettere a rischio la vita di un gruppo di soldati per permettere all’unico fratello sopravvissuto di tornare a casa dai genitori distrutti, qui l’interrogativo diventa, e Roosvelt lo pone direttamente a Stokes/Clooney nel finale, se valga la pena o meno rischiare di morire per preservare l’unica scultura di Michelangelo, o un Vermeer. La risposta è sì, e non può essere altrimenti, perché l’arte, in ogni sua forma, ricorda che l’uomo può essere ed è più della guerra e della distruzione, ed è importante ricordarlo sempre, soprattutto in Europa e in Italia, oggi che Pompei crolla a pezzi.

L’onestà dell’intento di Clooney è indiscutibile e lodevole. Il risultato, però, non è all’altezza della volontà. Indeciso se essere commedia, film storico di guerra o dramma, Monuments Men vaga e a tratti barcolla in cerca di definizione. Sembra come se a un certo punto Clooney e Heslov si siano ricordati che va bene scherzare, ma non bisogna dimenticare che la guerra è brutta e fa anche male, che si muore e non c’è tempo di fermarsi ad ammirare la bellezza di un cavallo selvaggio, e abbiano adeguato il registro di conseguenza alla ricerca di una dignità ulteriore rispetto allo spettacolo puro.

Disperso nelle sottotrame delle missioni dei vari monument men, il film, che ha più di un’analogia nello spunto fondamentale con Il treno di John Frankenheimer (1964) e con Bastardi senza gloria per la variegata brigata e il baffo condottiero, non riesce a sviluppare una completa caratterizzazione dei personaggi, appiattendo il cast internazionale (Matt Damon, Jean Dujardin, John Goodman, Cate Blanchett, Bill Murray) in un’etica alla Indiana Jones («Questo pezzo dovrebbe stare in un museo») contrapposta all’appetito totalitaristico nazista, che avrebbe voluto l’arte per sé per celebrarla nell’ipotizzato museo hitleriano, e nel dubbio anche sovietico, che già diventa minaccia per i monuments men prima della cortina di ferro e della Guerra fredda, scivolando in eccessi di patriottismo ed eccessiva retorica a stelle e strisce.

Dopo aver in passato dimostrato una dimensione autoriale consapevole e globale, qui Clooney si limita a un cinema di puro intrattenimento in cui la riflessione e il sottotesto passano in secondo piano. Abbassa il tiro e, paradossalmente, sbaglia la mira.

 

(Monuments Men, di George Clooney, 2014, commedia, 118’)

 

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