“La promessa” di Silvina Ocampo
di Mario Massimo / 17 febbraio 2014
Un salutare antidoto alla sindrome da “romanzo-a-qualunque-costo”, da cui sembra afflitta inguaribilmente la nostra miope editoria casalinga, può sicuramente essere additato in questo singolare, poetico non-romanzo di Silvina Ocampo, La promessa (la Nuova frontiera, 2013). Non-romanzo, intanto, perché è l’autrice stessa a formulare dei dubbi sulla validità di una simile struttura narrativa; sicché a chi aprisse questo lieve libro, dalla grafica riposantemente spaziata e accattivante (di cui, ovviamente, va reso merito all’editore), con l’aspettativa di farsi risucchiare, poche pagine dopo l’incipit, in una vicenda di quelle “da leggere tutta d’un fiato”, o “da non poter lasciare il libro prima della fine”, come commentano di solito i recensori in sollucchero, ebbene a questo speranzoso lettore va subito detto che rischia di andare incontro a una delusione: non è qui, il fascino del libro. Che pure esiste!
Per non incorrere in equivoci, allora, bisognerà tener presente ciò che l’autrice stessa dice nelle pagine iniziali: «Come Sharazad al re Shahriyar, in un certo senso ho raccontato storie alla morte perché concedesse la vita a me a alle mie immagini»; parole che subito avvincono per la loro squisita cadenza poetica; e solo dopo, per la precisione con cui indicano il carattere dell’opera stessa: appunto, come nella tradizione novellistica orientale (ma anche Boccaccio, deve averne saputo qualcosa: apprendista, a Napoli, alla sede del banco dei Bardi, ascoltava l’incrociarsi, nelle parlate mediterranee, dei racconti in cui nulla è così reale come quando è inventato) una vicenda primaria fa da pretesto, più o meno labile, al fruttificare dei racconti, delle storie di secondo livello.
E ciò che in Boccaccio è la peste da cui è deturpata Firenze, fuggita, per non cadere in tentazione, dai dieci “onesti” giovani, nel libro della Ocampo è il mare: l’oceano, meglio, in cui il narratore (narratrice, andrebbe detto, giacché il fatto che il punto d’osservazione sul mondo sia quello di una donna – di una bambina, per la precisione – non verrà più sottaciuto, quasi in ogni pagina del libro; e ne costituirà, questo sì, uno dei fascini essenziali) immagina di precipitare, durante una noiosa crociera e, vani tutti gli sforzi di farsi notare da chi è rimasto sulla nave, occuperà il tempo sottratto all’annegamento registrando i lacerti della propria esistenza che le tornano alla mente.
Non una rigorosa struttura narrativa, dunque, un prima e un dopo e un “perciò” e un “quindi”, ma neanche uno stream of consciousness che viene consapevolmente, quasi caparbiamente evitato: ogni episodio è nettamente delimitato, con, a fargli da titolo, il nome del protagonista. E ciascun episodio è la storia di una scoperta, da parte dell’autrice: di uno squarciarsi di luce sulla assurda inspiegabilità dell’esistenza. Come prova il fatto che quasi tutte le figure, specialmente quelle femminili, presentino – delineati con sobria, incisiva puntasecca da una Ocampo non certo in vena di ghiribizzi da “prosa d’arte”, ma per ciò stesso di lapidaria nitidezza poetica – i tratti di una fisicità sgradevole, untuosa, bastantemente imbarazzante. E che la vita possa essere contemplata con questa impassibile, lenticolare asciuttezza d’occhi è, probabilmente, l’insegnamento più prezioso, più commovente, che queste lievi pagine ci lasciano, a chiusura di libro.
(Silvina Ocampo, La promessa, trad. di Francesca Lazzarato, La Nuova Frontiera, 2013, pp. 144, euro 15)
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