“High Hopes” di Bruce Springsteen
di Alessio Spedicati / 24 febbraio 2014
È ancora il fantasma di Tom Joad quello che Springsteen cerca. Lo cerca perché è il fantasma di un’America che oggi più che mai ha bisogno di terra promessa e sogni in cui credere, salvo poi naufragare nel mare delle illusioni delle opportunità uguali per tutti. Forse è per questo che nella sua ultima fatica, High Hopes, l’eterno ragazzo del New Jersey piazza una versione rabbiosa di The Ghost of Tom Joad (dall’omonimo album acustico del 1995). Brano rinnovato e capace di portare a compimento un testo già conosciuto, meraviglioso, ma conferendogli i connotati di vera canzone di condanna, o di riscatto, dipende da quale punto di vista si voglia vedere l’epopea di Tom Joad e della sua famiglia alla ricerca di una terra da coltivare (sfortunati protagonisti di Furore di Steinbeck).
Una vera gemma il duetto in questione con Tom Morello. A proposito, a scanso di equivoci la voglia di Bruce Springsteen di mantenere ben saldi identità e tentativi di rinnovamento trova ulteriore conferma negli arrangiamenti del nuovo disco, la cui collaborazione sostanziosa con lo stesso Tom Morello ne è prova convincente. Oltre a ciò, rivisitazioni dall’archivio personale e cover danno l’impronta a un lavoro che si muove tra raccolta e novità. Ottima la sensazione non solo all’ascolto immediato della performance di Morello, ma è l’intero sound dei 12 pezzi che ha una forza penetrante.
Come noto, “High Hopes” è una cover degli Havalinas, e si capisce già dalla title track che nell’album verranno trattati alcuni dei temi tanto cari al cantautore americano, e per lui fonte di indubbia ispirazione da ormai più di quarant’anni: orgoglio, ingiustizie sociali, avverso destino contro cui lottare («fuori la mia finestra il mondo scorre via, è più inspiegabile che in un sogno» canta in“Just Like Would”, ripresa dai Saints). Ma la speranza è una condizione che Springsteen non toglie mai neanche ai personaggi più sofferti e apparentemente sconfitti. C’è qualcosa di più della speranza, a dire il vero, in High Hopes: vi si scorge una spiritualità meno laica di altre volte, tanto che “Heaven’s Wall” è praticamente un inno religioso, dove viene indicata una soluzione alle infinite battaglie, una via per correre sicuri («La sua misericordia non fallì»). Mentre in “This is your Sword” è «l’amore rivelato» a essere spada e scudo assieme, da portare ovunque dando «tutto l’amore che si ha nell’anima».
Un ottimismo tanto marcato (ben radicato in una fiducia che diventa fede) viene sapientemente bilanciato da tratti di malinconia quasi lacerante, prima con una “American Skin” da studio sempre travolgente («È che puoi essere ammazzato solo per aver vissuto dentro la tua pelle americana»); poi, dopo la riproposizione di Tom Joad, quando ci si ferma pensierosi ad ascoltare “The Wall”, dolce, tenera, ma così sferzante nel ricordo dei dolori del Vietnam («Non c’è più posto per le scuse e il perdono di tutti davanti al muro»).
Tanto realismo e tanta necessità di sognare in un andirivieni di sentimenti contrastanti, forse mai così oscillante. Il tutto, nonostante la varietà delle canzoni scritte in diversi momenti della carriera, non pecca di unità (gli arrangiamenti contribuiscono molto a coagulare l’insieme), con uno sbilanciamento finale a favore del sogno in “Dream Baby Dream” dei Suicide («Coraggio, piccola, dobbiamo continuare a sognare»), ma sempre con in testa il fantasma di Tom Joad.
(Bruce Springsteen, High Hopes, Columbia, 2014)
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