“Pasolini su Pasolini. Conversazioni con Jon Halliday”
di Francesco Vannutelli / 12 maggio 2014
Il rapporto tra Pier Paolo Pasolini e il cinema rivive attraverso le parole dirette del regista in Pasolini su Pasolini, una serie di interviste, ripubblicate da Guanda dopo la prima edizione italiana del 1992, realizzate in due settimane del 1968 dal giornalista e storico Jon Halliday. La formazione accademica di Halliday, che all’epoca insegnava all’Università di Calabria e in seguito ha pubblicato numerosi studi sulla storia d’Asia tra cui una importante ricostruzione della Cina maoista (Mao. La storia sconosciuta, Tea edizioni, con Jung Chang), contribuisce a inquadrare e comprendere la componente culturale universale, ancor più che cinematografica in senso proprio, dei film dell’intellettuale nato a Bologna.
Attraverso i colloqui suddivisi in undici capitoli, più due appendici, si passano in rassegna i titoli della filmografia pasoliniana fino al finire degli anni Sessanta, da Accattone fino al progetto di Porcile, passando per l’iniziale lavoro di sceneggiatura per altri (tra cui, per dire, Soldati per La donna del fiume, Bolognini per Il bell’Antonio, Fellini per Le notti di Cabiria) fino ai progetti mai concretizzati, come il San Paolo che avrebbe dovuto proseguire il discorso cristiano dopo Il vangelo secondo Matteo.
È un’idea di cinema unica, quella di Pasolini, impossibile da considerare se non nel contesto della sua produzione complessiva. Perché sono il sottoproletariato e le situazioni socialmente più derelitte il centro dell’attenzione pasoliniana volta alla ricerca di un impossibile essere umano puro, non condizionato dai vincoli della società borghese, tanto disprezzata, e ancora in contatto con la dimensione più autentica delle relazioni. Autentica nella sua drammatica e primitiva semplicità di soddisfazione di bisogni, di elementare contatto inter-umano, di svuotamento di sovrastrutture imposte per un ritorno all’immediatezza. Così, come per Ragazzi di vita che lo aveva imposto letterariamente, Pasolini inizia il suo discorso cinematografico con Accattone (1961) che dipinge la vita del sottoproletario Franco Citti, senza lirismi e senza denunce.
È la vita degli ultimi e di quelle condizioni così lontane dal mondo borghese a spingere la curiosità di Pasolini, come le dinamiche della relazione madre-figlio rievocate parlando di Mamma Roma («Quando un ragazzo scopriva che sua madre era una prostituta le regalava un orologio d’oro per indurla a far l’amore con lui») in cui invece viene rappresentato il tentativo della madre, Anna Magnani, di sottrarre il figlio al degrado per elevarlo a una condizione piccolo borghese di maggior agiatezza e sicurezza sociale. Un rapporto particolare, quello tra Pasolini e la Magnani, di cui si dichiara non soddisfatto parlando con Halliday per una radicale incapacità riconosciuta alla Magnani, e in generale agli attori, di rappresentare altro che sia il loro contesto sociale di riferimento. Anna Magnani non era una sottoproletaria cresciuta nelle baracche delle borgate, quindi di conseguenza per Pasolini non era stata in grado di rappresentare una madre sottoproletaria. È una visione molto parziale del mestiere d’attore, che limita il compito alla sola rappresentazione tralasciando l’interpretazione, che può essere – ampiamente – discussa, ma che spiega molto più di altro la scelta quasi unica di Pasolini di rivolgersi ad attori non professionisti presi dalla strada, sicuramente più vicini di qualsiasi interprete alla vita di strada che il suo cinema vuole rappresentare (le eccezioni sono pochissime, come Orson Wells, che in La ricotta interpreta un regista – e quindi va bene perché può rappresentare un mondo che conosce direttamente – o Totò, per Uccellacci e Uccellini, Che cosa sono le nuvole e La terra vista dalla luna, che incarna un tipo unico). Così come per gli attori, la ritrosia di Pasolini a lavorare con gente del mestiere di cinema si sposta anche agli aspetti tecnici: «Non ho mai pensato neppure lontanamente di fare un film che fosse opera di gruppo. Ho sempre concepito il film come opera di un solo autore, non solo della sceneggiatura e della regia, ma anche per quanto riguarda la scelta dei set, i personaggi, persino i costumi». Un controllo totale del regista, perché il film deve essere espressione completa del suo pensiero e della sua visione, senza interferenze poste da una posa d’attore o un intervento tecnico correttivo. Sicuramente un’idea di cinema parziale nel suo essere integralista, che non potrà mai essere riproposta da qualcuno di diverso da un pensatore totale come Pasolini.
È questo l’elemento di maggiore interesse di Pasolini su Pasolini: poter guardare dall’interno, attraverso le parole autentiche dell’intellettuale più eclettico e ugualmente realizzato della cultura italiana del Novecento (per limitare il discorso al secolo di appartenenza e alle relative forme espressive), un’idea di cinema che è visione del mondo in ogni suo aspetto: cultura, arte, politica, società.
(Jon Halliday, Pier Paolo Pasolini, Pasolini su Pasolini, conversazioni con Jon Halliday, trad. di Cesare Salmaggi, Guanda, 2014, pp. 209, euro 14)
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