“Maps to the Stars” di David Cronenberg
di Francesco Vannutelli / 23 maggio 2014
È in concorso al Festival de Cannes Maps to the Stars, ventunesimo film del canadese David Cronenberg che torna sulla croisette due anni dopo aver presentato Cosmopolis, tratto dal romanzo di Don De Lillo.
A Hollywood la celebrità è la più grande attrazione. Le maps to the stars vengono vendute ai turisti per andare a vedere – da fuori – le case dei divi del cinema e della televisione. Agatha è appena arrivata, anzi tornata, da Jupiter, un paese della Florida, non il pianeta, per cercare di ricucire i rapporti con la sua famiglia. Il padre, un noto guru televisivo che fa una terapia fisica di auto-convincimento ai suoi ricchi e famosi clienti, l’ha spedita in un’ospedale psichiatrico dopo che sei anni prima aveva drogato il fratellino e dato fuoco alla casa. Ora Benjie, il fratellino, è diventato una star prepuberale con milioni di incassi e un comportamento da divo consumato: tossicodipendenza, riabilitazione, colossale arroganza. È che la vita della stella consuma, lo sa bene Havana, attrice non più giovane che tenta disperatamente di rioccupare la scena interpretando sua madre, un’attrice che ebbe ben altro successo rispetto a lei, nel nuovo film di un autore molto acclamato.E poi c’è Jerome, che prova a diventare attore, o sceneggiatore, e intanto guida limousine portando in giro quelli a cui vorrebbe assomigliare.
C’è una poesia di Paul Eluard che i protagonisti leggono e ripetono più volte. È La libertà, che va scritta su «ogni carne consentita/ sulla fronte degli amici/ su ogni mano che si tende». La libertà è quello che cercano Agatha, Benjie, i loro genitori, Havana. Libertà dal successo imposto e dall’infanzia negata, dalla colpa della scoperta, dall’orrore della scoperta, dal peso del confronto costante. Sotto l’apparente strato della celebrità si agita costante il flusso della decomposizione psichica, della decadenza, della solitudine.
Cronenberg è cambiato, e con lui il suo cinema. Un tempo il corpo era il mezzo con cui esprimere lo sconvolgimento dell’interno. Il cosiddetto body-horror, che insieme al melodramma ha sempre caratterizzato il suo cinema (tipo Il pasto nudo e M. Butterfly), rappresentava le malformazioni e le trasformazioni della psiche sulla carne visibile, come escrescenze, esplosioni, trasformazioni. È da Spider che la rappresentazione del disagio si è interiorizzata: non più pelle ma pensiero a prevalere, non più segno del mutamento ma simbolo. Il corpo, da riflesso della realtà interiore, è diventato strumento di percezione. In una intervista recente, David Cronenberg ha affermato che il suo essere fondamentalmente radicato di un ateismo di matrice esistenzialistico-materialista (ci sarebbe da discutere, su questa duplice etichetta, considerando che l’esistenzialismo rivendicava il ruolo della soggettività proprio rispetto al pensiero materialista che aveva ridotto l’individuo a puro oggetto, e che – magari non i concetti in sé, ma i sistemi filosofici sì – i due termini sono generalmente contrapposti) lo porta a escludere ogni forma di trascendenza e a credere solo nei corpi sensibili. In Maps to the stars restano le cicatrici di Mia Wasikowska a mostrare esteriormente la traccia di un’esplosione di pazzia. I corpi, per il resto, sono gabbie che rinchiudono nella situazione, che conservano l’influenza invisibile del tempo passato e condizionano il presente.
E il presente non è nient’altro che una desolante solitudine, sottolineata dalle riprese che prendono gli attori uno a uno, lo pongono al centro quasi simmetrico della scena e lo lasciano lì a parlare, a mezzo busto. Una solitudine in cui solo i fantasmi – fantasmi veri, non simbolici – della negazione, di ciò che è stato, di ciò che sarebbe potuto essere, arrivano a tenere un’inquietante e allucinata compagnia.
Sarebbe tutto molto bello, se solo fosse riuscito. Perché Maps to the Stars, così come le precedenti due prove di Cronenberg, non ha coesione narrativa, non ha compattezza, non ha neanche sostanza. Scritto da Bruce Wagner, il film di Cronenberg vorrebbe essere, oltre che una parabola sulla solitudine e sul vuoto di senso dell’esistenza, una satira dello star system e le ossessioni delle celebrità. È un mondo incestuoso e divorante, d’accordo, e anche gli abusi d’infanzia, in una prospettiva votata al solo successo, possono diventare medaglie anziché cicatrici, ma la mostra dei capricci, dello sciorinio di farmaci e pasticche, delle invidie e delle ipocrisie, è stereotipato, piatto, per niente incisivo. Cercando di mostrare l’ignoto attraverso il noto, la mappa per le stelle si perde in fretta.
(Maps to the Stars, di David Cronenberg, 2014, drammatico, 95’)
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