“Quitaly. L’Italia come non la raccontereste ai vostri figli” di Quit the Doner
di Francesco Vannutelli / 10 luglio 2014
Per riuscire ad apprezzare pienamenteQuitaly (Indiana, 2014), raccolta di articoli e reportage pubblicati su Linkiesta e VICE da Quit the Doner, blogger anonimo che ha un’opinione su tutto e che per questo si è aggiudicato un Macchianera Italian Award nel 2013, bisogna scegliere da che parte stare. La linea che segna un di qua e un di là è la frontiera del nuovo giornalismo italiano, quel modello originato dall’opinionismo da blog e alimentato dalle nuove frontiere digitali orientate alla condivisione più che al contenuto.
Ora, appurato da che parte si voglia stare – e sostanzialmente la scelta è tra il ritenere questo nuovo giornalismo l’unica forma di comunicazione possibile per raccontare i valori in declino, l’estetica ributtante, la morale prostituita immergendosi all’interno del mondo in rovina per parlarne come inviati al fronte dal piedistallo, sommerso, di una superiorità presunta, oppure liquidarlo come una rassegna di stereotipati luoghi comuni di posizioni antagoniste che cercano di rendersi memorabili, o valevoli di unlike, quantomeno, attraverso la battuta a tutti i costi affogata di riferimenti alla cultura popolare e pop – l’atteggiamento nei confronti di Quitaly può essere solo di due tipi: l’accettazione totale o il rifiuto assoluto.
Il manicheismo, però, lo stare con o contro, non è una scelta che nasce spontanea nel lettore. È Quit a chiamarla, a provocarla con i suoi articoli. L’essenza di Quitaly e di Quit the Doner è un’osservazione socio-antropologica che non ha molto di originale se non l’estrema semplicità, e la calcolata malizia, dell’esposizione. Basta la copertina di Gipi, bella, a dare il senso generale del tutto: un uomo sospeso nel cielo che osserva dall’esterno l’Italia da Palermo ad Aosta. Ecco, quell’uomo è Quit. Quit the Doner si pone fuori dall’Italia che non gli piace, dall’Italia «come non la raccontereste ai vostri figli», come recita il sottotitolo, da quell’Italia che non è Quit.
Il viaggio lungo la Penisola che si compone attraverso i quattordici reportage è una rassegna di eventi, personaggi e situazioni che Quit the Doner osserva alternando partecipazione e ironico distacco. C’è sempre qualcosa da ridire su quello che succede.
Le direzioni principali del biasimo sono due: l’italianità media che si riconosce e accetta nella maggioranza, nel gusto complessivo, nel costume generale come per esempio nelle feste in spiaggia in Salento; le fasce di cultura benpensante, i «Quotidiani italiani seri», Daria Bignardi, Saviano e tutto il repertorio di personaggi più o meno di sinistra criticati da tutti coloro che si dicono di sinistra, però non così, in un altro modo più puro, più alto, disincantato.
Le conseguenze di questo movimento distruttivo di tutto ciò che non è Quit è che se ci si riconosce nell’opinione prevalente, o anche solo se non si disprezza tutto con sarcasmo iconosclastico, si finisce integrati e distrutti in una generalizzazione che assimila il trafficante di schiave al notista politico del TG5, che rende Caparezza adatto solo ai giovani del PD in cerca di emozioni forti. Se per caso scappa una risata con un’imitazione di Fiorello si è inevitabilmente dei coglioni. Se si dà la colpa a Balotelli per l’uscita dell’Italia dai Mondiali si è dei benpensanti mangiatori di arrosticini e ci si merita Verratti, per far riferimento a un articolo recente non incluso nella raccolta.
Per Quit l’unica conseguenza pubblica di questa eterna condanna dell’altro è stata l’inserimento nella lista nera dei giornalisti “di sistema” del blog di Beppe Grillo, dopo la pubblicazione dell’articolo “Cinque buone ragioni per non votare Grillo”. Sempre lungimirante, il blogger genovese, che in questo modo ha impennato la celebrità di Quit the Doner e la diffusione dell’articolo.
C’è molto, moltissimo, Daniele Luttazzi nella scrittura di Quit the Doner, e non è un caso che venga citato direttamente a un certo punto. La differenza sostanziale, però, è che Luttazzi metteva (mette?) faccia e nome in prima persona nel suo gioco al massacro, esponendosi a contestazioni, scomuniche e licenziamenti. Quit si nasconde dietro uno pseudonimo e presentandosi come giornalista, come narratore del reale, non pone il filtro assolutorio della satira ma quello ridondante della dissacrazione forzata.
Eppure, quando non si sforza di essere a tutti i costi ironico nei confronti delle realtà che osserva, Quit the Doner riesce anche a essere lucido, addirittura interessante. Le sue analisi si basano su categorie critiche perfettamente esposte in grado di esprimere con formule chiare e precise concetti di vasta portata sociale, come l’idea di “religione di internet” per descrivere l’autocelebrazione ossessiva amplificata dai social network, dalle foto nei bagni delle discoteche, dalla condivisione coatta che tenta di elevare il quotidiano a eterno, il chiunque a celebrità autoimposta, o ancora l’ossimoro “tradizione temporanea” per sintetizzare la portata transitoria ma permanente di fenomeni collettivi culturali quali i cartoni animati dell’infanzia, destinati a essere relegati e fondanti per singole generazioni, prima di essere sostituiti dal prodotto successivo.
Ancora di più, Quit riesce a fare giornalismo di livello quando cambia il registro e va in Alto Adige a raccontare l’autonomia, quando si infiltra in una convention di Herbalife e osserva dall’interno le vendite piramidali, quando racconta di un’osteria, di una donna e di un tavolo e di come nacquero le Brigate Rosse.
Tornando alla scelta iniziale, l’ipotesi dell’accettazione totale non incontra ostacoli concreti. La lettura è una rivelazione continua per chi vuole ricevere rivelazioni, suscita il riso altezzoso e distaccato di chi si voglia sentire lontano dal mondo, dà indicazioni generali su cosa si debba disprezzare per far parte della minoranza dissenziente.
Lo sforzo lo deve fare chi non si rassegna al rifiuto assoluto. Ci vuole pazienza e forza per superare l’iniziale diffidenza e la vera e propria difficoltà nell’accettare una presentazione che parte con «passavo qui davanti e ho sentito odore di fregna» – e no, immaginare il sabato sera di Rai Uno affidato ad Antonella Clerici e Rocco Siffredi rinchiusi in uno scantinato e nutriti solo con ormoni di una tuffatrice cinese non fa ridere, non scandalizza, non denuncia. Quitaly, però, resistendo all’istinto del rifiuto, trova il suo valore specifico proprio nell’opportunità che offre di comprendere dall’interno i nuovi linguaggi della comunicazione e del giornalismo, di vedere la linea che unisce e disegna un mondo in cui realtà come VICE si sono elevate a censori morali partecipanti, popolato di blogger, fashion design, autori creativi, tutti necessariamente creativi, tutti necessariamente artistici, tutti necessariamente contro.
(Quitaly. L’Italia come non la raccontereste ai vostri figli, Quit the Doner, Indiana, 2014, pp. 240, euro 14,50)
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