“Una promessa” di Patrice Leconte
di Francesco Vannutelli / 2 ottobre 2014
Periodo di grande considerazione da parte del cinema per lo scrittore austriaco Stefan Zweig (1881-1942). Dopo l’omaggio da parte di Wes Anderson in Grand Budapest Hotel arriva la trasposizione di Il viaggio nel passato da parte del regista francese Patrice Leconte in Una promessa.
Nella Germania all’alba della prima guerra mondiale (l’anno è il 1912), il giovane Ludwig, laureato in chimica, scala i favori del magnate dell’acciaio per cui lavora, Karl Hoffmeister, con la sua solerzia e precisione. Quando Hoffmeister si ammala, Ludwig ne diventa il segretario personale, sostituendolo, di fatto, nell’amministrazione dell’impresa e mantenendo l’assoluto riserbo sulle condizioni del padrone. Durante le numerose visite in casa Hoffmeister, Ludwig conosce Charlotte detta Lotte, la giovane moglie dell’industriale, amante della musica e carica di irrefrenabile vitalità. Con il tempo, il ragazzo finisce per assumersi anche l’incarico di dare lezioni private all’unico figlio della coppia, il piccolo Otto, finendo per diventare sempre più parte integrante della famiglia. La necessità del contatto costante tra i due per monitorare l’andamento dell’impresa convince Karl a far trasferire Ludwig nella sua immensa casa. È durante la convivenza che il rapporto con Lotte assume nuove sfumature, in un corteggiamento cauto e lento, bloccato dal timore e dalle condizioni di Karl in costante peggioramento.
È la prima produzione in lingua inglese per Patrice Leconte, questo Una promessa. Ha attraversato ogni tipo di genere cinematografico, nella sua lunga carriera, Leconte, dimostrandosi regista eclettico e padrone di diversi linguaggi, alternando momenti fortunati (Tandem, Il marito della parrucchiera, La ragazza sul ponte, Confidenze troppo intime) a soluzioni meno riuscite, come la recente escursione nel cinema di animazione con La bottega dei suicidi.
Ora con la vicenda di Ludwig, Lotte e Karl si misura per la prima volta con il melodramma classico. Ci sono tutti gli elementi: un amore all’apparenza impossibile e l’improvvisa lontananza, una serie di rapporti padre e figlio surrogati (Karl con Ludwig; Ludwig con Karl), la vecchia Mitteleuropa, il fantasma della guerra su tutto, il vento di una rivoluzione (l’ascesa al potere di Hitler) pronta a cambiare un’epoca, lutti e dolori. Eppure, Leconte non riesce ad andare oltre una confezione pressocché perfetta. Perché dietro ai costumi e agli ambienti manca una struttura solida.
L’ottima prova dei tre interpreti (Richard Madden, che è stato Rob Stark nella serie Il trono di spade; Rebecca Hall, che inizia a poter mostrare il suo talento come protagonista, dopo tanti ruoli di supporto; il grande Alan Rickman, che è facile ricordare come Severus Piton nella saga di Harry Potter), che riescono a dare il meglio anche quando l’eccesso di pathos finisce per scivolare nel patetismo, sembra sprecata a fronte di scelte di regia che finiscono per vanificare gli elementi di forza su cui Una promessa avrebbe potuto fare leva. La musica di Charlotte, ad esempio, e la sua maestria al piano che cattura entrambi gli uomini e finisce troppo presto in secondo piano anziché essere centrale, o il puzzle che gli aspiranti amanti costruiscono insieme nelle lunghe e lente sere di indiretto corteggiamento.
Leconte sembra giocare con gli elementi del melodramma senza curarsi di altro. Sembra interessargli solo confezionare un film di genere con tutti i limiti impliciti nel genere stesso. Solo a tratti sembra consapevole dei rischi che la materia prescelta può portare con sé, quando abbandona inquadrature convenzionali (che come sempre, dal 1987 di Tandem in poi, ha curato personalmente) per affidarsi a movimenti di camera leggeri e improvvisi, con un uso rapido e nervoso dello zoom completamente fuori registro, quasi a voler scuotere le immagini. Neanche così, però, riesce a vincere l’assoluta freddezza generale, l’esposizione priva della partecipazione del racconto.
Anche il rapporto con la storia, fondamentale nell’opera di Zweig, è incompleto, gestito a metà. Fino allo scoppio della guerra (e anche dopo, in verità), la dimensione sociale ha una rilevanza praticamente nulla nel riflesso sulle vite dei protagonisti. Potrebbe essere una vicenda ambientata in ogni epoca, in ogni luogo, talmente insignificanti sono gli elementi di contorno. Leconte, anche sceneggiatore con Jérôme Tonnere, non si cura di inserire i suoi tre protagonisti nella realtà storica fin quando non è la Storia stessa a separarli.
È questo il difetto, il limite: la piattezza, l’adattarsi a una narrazione scialba, senza guizzi, nonostante temi universali che potrebbero pretendere di più. Perché i confronti tra amore e tempo che passa, tra distanza e desiderio, tra guerra e pace ed equilibrio e dolore, nel loro essere eterni e classici, meriterebbero di essere resi all’altezza delle loro grandi possibilità.
Presentato fuori concorso alla Mostra internazionale del cinema di Venezia del 2013.
(Una promessa, di Patrice Leconte, 2013, drammatico, 98’)
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