“La ragazza dai capelli strani”
di David Foster Wallace
di Anna Quatraro / 15 ottobre 2014
L’opera di David Foster Wallace assomiglia a un’enorme costellazione intitolata al linguaggio umano e alle sue più recondite possibilità espressive. Alla padronanza magistrale del linguaggio, si unisce un’attenzione incandescente e vigorosa volta a creare disinvolti giochi di incastro, una pluralità di voci che si alternano nella narrazione, fra gerghi inventati e lemmi riscoperti. Parole che guizzano di pensiero, esseri pulviscolari, che combattono il linguaggio preconfezionato dei media, lo deformano, restituendo significanti altri.
Se fosse per la rivoluzione linguistica, si potrebbe liquidare l’imponente opera wallaciana come una logica conseguenza di una passione autentica per la lingua e un riflesso degli studi linguistici. Tuttavia, l’acume narrativo sfocia sì in una struttura lucida e controllata, ma pure in un amore viscerale per la lingua e in una spontanea forza emotiva che avvicina al lettore anche i personaggi più immorali.
La ragazza dai capelli strani, (minimum fax, 2003) è la sua prima raccolta pubblicata in Italia, tradotta con una lingua limpida da Martina Testa. Il primo dei racconti, “Piccoli animali senza espressione”, considerato il manifesto della poetica dell’autore, si avvale di una contrapposizione di piani narrativi, una formula che ritorna spessissimo nelle successive narrazioni. In primo piano, la rappresentazione dell’intrattenimento, la martellante corsa al successo televisivo, attraverso i quiz, il senso di abbandono dei protagonisti a cui si intrecciano le vicende di una determinata concorrente che vince ogni puntata, per pagare le cure del fratello. Sull’evento quotidiano più prosaico si imprime lo sguardo lieve e profondo di Wallace, la ricerca stilistica che smentisce la trivialità delle esperienze e le rielabora in una dimensione iper-reale.
Nello stesso racconto, il sentimento amoroso fra due donne è tratteggiato con grazia e ironia. Con lo stesso pretesto, Wallace accenna la cultura dell’alterità, mostrando i leitmotiv culturali e i tabù collettivi, meccanismi analizzati anche nel “La mia apparizione”, dove un’attrice ospite di David Letterman si diverte a prendersi gioco di lui, umiliandosi al contempo da sola. Due parole sulla libertà personale, una nozione che oscilla sempre tra farsa e principio americanamente inviolabile, oltreché imprescindibile. In fondo, come sottolineato nel celebre discorso ai laureandi del 2005, la libertà americana riposa sull’accesso a una quantità grandiosa di consumo, intrattenimento e successo personale, ma non di meno nella libertà di pensiero. Attraverso i suoi personaggi, Wallace ritrae un’intera nazione ricattata da moventi economici e alle prese con un complesso rapporto con quest’ultima. Emblematico è il racconto “Lyndon”, costruito attorno all’ascesa presidenziale dell’ambizioso Johnson, che fronteggia le proteste hippy con cinismo. Con motti taglienti e persuasivi, Lyndon riesce a imprimere i suoi discorsi di sincero patriottismo, che comporterà responsabilità belliche verso la nazione. Il racconto gioca sul punto di vista di un giovane collaboratore che assiste alla costruzione di una figura dotata di notevole carisma: Wallace ne restituisce il ritratto l’immagine di un politico abile, mosso da ambizione sfrenata, diretto seppur aspro.
“Per fortuna il Funzionario Commerciale sapeva fare il massaggio cardiaco” coglie le ambizioni yuppie di due impiegati, separati da carriere paralleli, che si incrociano alla fine di una giornata di lavoro. Pensieri minimi, gesti abitudinari si fermano di fronte a un inatteso e repentino momento di reciprocità, forse il solo, quando il più anziano dei due, il Vice Presidente Responsabile della Produzione Estera, è colto da malore: una scena allargata che mette in gioco, per una volta, una relazione più intima fra i due.
Un paesaggio umano irrisolto, autoironico e impertinente appare e scompare nelle saettanti narrazioni. La forma-racconto è aggredita, l’artificio imbastisce relazioni che, nell’evasione della struttura e nella precarietà, si rincorrono senza sfilacciarsi, cosicché ciò che resta così nascosto in bella vista si riveli, un’umanità che seppur afflitta da malesseri, illumina un presente, furioso e incerto nel suo incedere.
Si tratta di narrazioni che anticipano le atmosfere di Oblio. Il Lete travolge sentimenti, umori e passioni, sommergendo nel disordine, non solo metafisico, le vite dei personaggi, che tuttavia continuano ad appellarsi alla ragione. Grappoli di dialoghi e flussi di coscienza, surreali assenze, vuoti e paradossi confermano quanto questi racconti, scritti alla fine degli anni Ottanta, abbiano precorso le tendenze emotiva anni Zero e segnato, grazie all’entusiasmo da esordiente, una svolta nella narrativa contemporanea.
(David Foster Wallace, La ragazza dai capelli strani, trad. di Martina Testa, minimum fax, 2003)
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