“torneranno i prati” di Ermanno Olmi
di Francesco Vannutelli / 4 novembre 2014
Ermanno Olmi, nel centenario dello scoppio della prima guerra mondiale, racconta l’impossibile vita di trincea in torneranno i prati.
È il 1917. Lungo il fronte alpino nord orientale, al confine tra Italia e Austria, un contingente italiano vive sommerso in una trincea di neve. A pochi metri, invisibile, c’è il nemico. Tutto intorno alberi e freddo. Un maggiore arriva a cavallo dal comando con un ordine preciso: bisogna creare una nuova linea di comunicazione in un rudere poco distante dalla trincea. Raggiungerlo vuol dire esporsi ai cecchini, vuol dire morire.
Arrivato a ottantatré anni d’età e ormai oltre i cinquantacinque di carriera (Il tempo si è fermato era del 1959), Ermanno Olmi rimane fedele alla sua idea (non solo) di cinema basata sull’incontro tra comunità umana e natura. Nel momento in cui gli uomini sono in collegamento con lo spazio che abitano, con gli alberi e le piante e le montagne, sono necessariamente in collegamento anche tra di loro. Così, i soldati di trincea riescono a chiamare casa la condizione inumana in cui vivono, a chiamare famiglia l’aggregato di sconosciuti con cui condividono la branda, a dimenticare di essere nemici quando una canzone rompe il silenzio della notte.
È quando si intromette un livello di umanità ulteriore, travisato, distante dalla comunione naturale, che l’armonia si spezza e subentrano dinamiche alienanti. Perché l’arrivo del maggiore che porta ordini che sente di non poter condividere, ma a cui sa di non potersi opporre, modifica il movimento degli uomini, costringe a esporsi al di fuori del tetto della convivenza umana e a ricordare la guerra. Il momento dell’umanità gerarchica si frappone nell’orizzontalità delle relazioni modificandone la dinamica. Arriva un altro, verticale, che impone un nuovo ordine dall’esterno senza osservare. È per questo che il capitano di trincea, piegato dall’influenza come metà del suo battaglione, rinuncia ai gradi per tornare soldato semplice: per annullare la gerarchia, per tornare come gli altri e recuperare la dignità umana.
C’è un senso di attesa costante e incombente sull’avamposto, la consapevolezza che quell’equilibrio di silenzio scosso appena dal ruggito lontano delle bombe non potrà durare per sempre. In quella fortezza Bastiani in mezzo al bianco annullante della neve tutti sanno che la tregua, per quanto bellissima e accogliente, è solo una finzione transitoria.
Il nemico, sia esso inteso come nemico dell’umano che come nemico di guerra, è esterno, mai mostrato, inconcepibile nel suo essere alieno alla comunità. I comandi del vertice italiano piombano sul caposaldo con la stessa indifferenza dei colpi dei mortai austriaci. È nemico proprio perché è posto al di fuori della relazione, perché non entra in contatto con la realtà delle cose del quotidiano della trincea.
Alla semplicità concreta della sofferenza dei soldati italiani, avvolti in strati di lana e attaccati alle lettere e alle foto di casa come fossero maschere di ossigeno, si contrappone l’invisibilità dell’altro, del comando che arriva per telefono, delle bombe lanciate da chissà dove che sventrano il rifugio.
Continuando una tradizione che unisce idealmente il cinema della Grande Guerra lungo un asse che va dagli Orizzonti di gloria di Stanley Kubrick agli Uomini contro di Francesco Rosi, Olmi ricorda che esistono prima di tutto gli uomini e poi i comandi delle autorità. Senza comprendere nel suo discorso la contestazione o l’identità politica, il regista rivendica la pace come condizione naturale dell’esistenza umana. Tutto ciò che è altro è frattura.
Nel racconto di una guerra, di quella guerra che era stata di suo padre, Olmi parla di ogni guerra dell’uomo e della loro inutilità. È nel ricordare che è esistito il conflitto, che uomini hanno vissuto in buche scavate nella neve, che ci sono stati ordini che hanno significato massacri inutili, che il maestro rende omaggio alla storia. Non quella della diplomazia, degli accordi di pace o della geopolitica. Non quella dei confini contestati e del patriottismo. Quella degli uomini e della gente, perché è la gente che fa la storia, e farebbe benissimo a meno della guerra.
(torneranno i prati, di Ermanno Olmi, 2014, storico, 80’)
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