“Febbre bianca”
di Jacek Hugo-Bader
di Chiara Gulino / 24 novembre 2014
In Siberia è così. Quaranta gradi sotto lo zero e la sola vodka a scaldarti il cuore. Una luce esatta e tagliente come un giudizio a illuminarti il cammino.
Febbre bianca (Keller, 2014) del reporter polacco Jacek Hugo-Bader ha il respiro freddissimo di un reportage, tale è lo stupore, lo sdegno, lo sbigottimento che sa accendere e riaccendere.
Partito da Mosca con una Lazik, la cosiddetta “jeep sovietica”, modello prodotto in forma invariata dal 1972, il giornalista della Gazeta Wyborcza si mette in viaggio verso Vladivostok, città situata nell’estremo lembo della Russia orientale.
Il titolo Febbre bianca evoca una piaga, quella dell’alcolismo, principale causa di morte in Russia, specie tra gli allevatori di renne nella taiga. Ce lo spiega una alcologa intervistata da Jacek: «Tecnicamente si chiama delirium tremens ed è la sindrome più frequente tra le psicosi alcoliche. Si manifesta due o tre giorni dopo aver interrotto una sbornia protrattasi per lungo tempo. Si preannuncia con ansia e insonnia, dopodiché compaiono allucinazioni che possono essere visive o uditive. Alcuni vedono delle strane figure in movimento, mostri, animali. Altri invece sentono delle voci che li insultano, minacciano, umiliano, accusano oppure dicono loro di fare certe cose, per esempio ammazzarsi, oppure impugnare un’ascia e tranciarsi una mano».
Il numero di suicidi è spaventosamente alto se non è il freddo a porre fine a tante vite insoddisfatte.
È evidente sin dalle prime pagine di che sangue grondi l’inossidabile potenza Russa.
Procedendo per microstorie e interviste, come fece l’illustre predecessore Ryszard Kapuscinski, Bader racconta le vite degli hippies moscoviti, dei superstiti dei vecchi manicomi e dei rapper, riceve consiglio a Mosca sulla condotta da tenere in viaggio (non fidarsi di nessuno in pratica), trascorre giorni in incognito con i senzatetto, si scontra con la sottaciuta realtà tragica della tossicodipendenza e dei sieropositivi: «L’epidemia raggiunse il suo picco nel 2001, l’anno in cui vennero registrati ufficialmente ottantasettemila nuovi casi di contagio. La Russia di allora era vista nel mondo come una seconda Africa».
Incontra e intervista l’inventore del kalashnikov e il suo ritratto stride grottescamente con la morte e la violenza scatenata dall’uso della sua invenzione: «minuto, con le ciabatte ai piedi, se ne sta in un angolino accanto al pianoforte».
A Vissarion conosce l’Insegnante attorno a cui si raccoglie una comunità di persone che non bevono, non fumano e credono che lui sia il nuovo Messia. E poi ancora si imbatte in sciamani nella regione della Tuva.
Sono tutti personaggi che sembrano usciti dalle pagine di Dostoevskij, turbati e disorientati di fronte ai propri sentimenti e dai pensieri contorti e inquieti, confusi nella loro marginalità.
Nonostante il freddo, le difficoltà (più volte il jeeppone lo lascerà in panne) e l’indifferenza e diffidenza della gente indigena, Jacek arriverà a destinazione sano e salvo, svelandoci il volto più drammatico e seppellito di uno dei Paesi politicamente più controversi del mondo, per molto tempo e ancora oggi vite di regolazione degli avvenimenti internazionali.
Febbre bianca è un invito a guardare quella parte di mondo senza alibi e pregiudizi, sicuri che nulla è come appare.
(Jacek Hugo-Bader, Febbre bianca, trad. di Marzena Borejzuc, Keller 2014, pp. 320, euro 16,50)
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