“In altre parole”
di Jhumpa Lahiri
Un manuale d’amore dedicato all’italiano nel quale la scrittrice si racconta in una nuova lingua senza lo schermo dei propri personaggi
di Giulia Usai / 11 maggio 2015
Se ci si aspettava un prodotto letterario della stessa disinvoltura dei suoi romanzi precedenti, leggendo In altre parole (Guanda, 2015) le impressioni non corrisponderanno alle attese. L’ultimo lavoro di Jhumpa Lahiri è una ricerca meticolosa, sofferta, un lavoro che in alcuni punti ha un che di militaresco. Raccogliendo in un volume una serie di post usciti su Internazionale, la scrittrice anglofona ha voluto raccontare il suo rapporto con l’italiano, una lingua imparata coscienziosamente, da adulta, con la determinazione che si riserva alle scelte personali prese per il desiderio di oltrepassare un proprio limite. Scegliendo di allontanarsi dall’inglese, la lingua di espressione più spontanea e conosciuta, Jhumpa Lahiri fa un salto rischioso, e ne illustra le ragioni ai lettori con una logica che si dipana progressivamente, capitolo dopo capitolo, convincendoci che l’adozione di un nuovo mezzo di espressione fosse una necessità ineluttabile.
Nel suo manuale d’amore per l’italiano l’autrice racconta i suoi sentimenti di persona deterritorializzata, alla quale mancano una lingua, un luogo in cui identificarsi: «I concetti di esilio e di ritorno implicano un punto di origine, una patria. Senza una patria e senza una vera lingua madre, io vago per il mondo, anche dalla mia scrivania. […] Sono esiliata perfino dalla definizione di esilio».
Il bengalese, simbolo della prima infanzia, è la lingua degli affetti, dell’espressione orale, che rimane circoscritta allo spazio domestico e al rapporto con i genitori, talvolta con i figli. L’inglese, che padroneggia perfettamente e sul quale ha costruito la sua fama di scrittrice, è l’altra lingua della sua vita: quella con cui scrivere, quella per pensare. Tuttavia, il rapporto con entrambe è reso problematico dalla coscienza che l’inglese e il bengalese sono lingue imposte, legate al passato e al presente della sua storia familiare.
In questo conflitto si colloca l’italiano, una zona franca per questa romanziera apolide: uno spazio in cui dare forma ai suoi pensieri con il supporto di una struttura linguistica unica, che sente sua proprio perché, sebbene culturalmente e genealogicamente distante, rappresenta una scelta ponderata. Se inglese e bengalese sono metafora di naufragio, l’italiano è un approdo rassicurante perché ben calcolato. La relazione con questa nuova lingua non è facile: Jhumpa Lahiri deve dosare, addomesticare le parole con regole grammaticali e sintattiche che ha bisogno di imparare una per una, che perentorie rallentano il suo percorso di stesura di pensieri. Eppure non demorde. Sbaglia, si informa tra gli amici italofoni, legge libri sulla morfologia dell’italiano per poi scoprire che certe regole non vengono rispettate neppure in letteratura, rilegge i testi con varie persone, ognuna delle quali ha un consiglio su come migliorare un aggettivo, alleggerire un periodo, dare più spontaneità ai brani.
Eppure, il risultato è riuscitissimo. Una riflessione sulla lingua che coinvolge la sfera emozionale, sentimentale e appassionata come poche, una confessione intima che si serve dell’italiano con educazione, con la manualità accorta che si riserva alle cose preziose. Jhumpa Lahiri riesce a rendere l’italiano estremamente suo, ne fa un mezzo espressivo personale per raccontarsi e gli conferisce una peculiarità che porta ad apprezzare la scelta di ogni termine, dietro il quale è evidente l’attento lavoro di selezione. Servendosi di una lingua che è andata a cercare, che non le è mai appartenuta, l’autrice stabilisce un livello di intimità con i lettori che con l’inglese non sarebbe stato possibile: scrivendo in italiano, infatti, la sua consapevolezza idiomatica non sarà mai totale, e in quella dose di incoscienza risiede la delicatezza del testo, scritto con netta disciplina ma a cuore aperto. Il suo italiano sincero fa trasparire le sue fragilità di artista, e l’antologia, così come è concepita, racconta la sua persona molto meglio di quanto possa fare un romanzo, che permette di mimetizzarsi dietro e dentro i personaggi, evitando un confronto diretto con il pubblico.
(Jhumpa Lahiri, In altre parole, Guanda, 2015, pp. 156, euro 14)
Leggi anche l’intervista a Jhumpa Lahiri.
LA CRITICA
Una lettura che ricorda agli italiani la potenza della propria lingua madre, e ne mette in luce aspetti altrimenti dati per scontato. Un manuale sentimentale che rassicura chi l’italiano lo sta imparando, permettendogli di rispecchiarsi nelle difficoltà e nelle gioie del processo di apprendimento.
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