“Biografia di un albero”
di Hernán Ronsino
Storie minime di personaggi che cercano di intrecciare il loro nome alla memoria del paese
di Chiara Gulino / 13 maggio 2015
«Come si fa, allora, a raccontare un albero?»
Lo si può fare disegnandone il tronco, due linee parallele, e la morbida fronda a forma di nuvola in dissolvenza sul vetro di un finestrino appannato mentre trascorre il paesaggio sullo sfondo.
Come si fa, allora, a scriverne la biografia?
Lo si fa partendo dalle radici. Da un luogo. Chivilcoy, cittadina della pampa argentina in provincia di Buenos Aires.
Il giovane scrittore argentino Hernán Ronsino è qui che torna nel suo quarto lavoro, Biografia di un albero (Gran-vía, 2015), dopo la raccolta di racconti Te vomitaré de mi boca (2003) e i romanzi La descomposición (2007) e Glaxo (Meridiano Zero, 2013).
Ricostruire le proprie radici è quello che tenta di fare l’autore aggirandosi nei luoghi della sua infanzia, trascorrendo nello spazio e nel tempo in un gioco vorticoso e lucido di rimandi fra passato e presente, fra memoria collettiva e memoria individuale, fra storia e mitologia.
I ricordi si profilano fervidi nei brevi e istantanei lampi della memoria, un piede davanti l’altro, persino a volte a ritroso. La città in cui visse un tempo, chi era allora, le vie percorse in su e in giù ritornano come la brina mattutina su cui batte la luce del sole, un sole «che cade a picco bruciando i campi, scaldando i tetti di zinco, facendo ribollire le condutture dell’acqua».
«Ogni pezzo di muro di questa città si porta addosso, come una pelle, le tracce della mia storia».
Questa frase, ascoltata in un documentario, si imprime, come il calco di un fossile su una roccia viva, nella mente del narratore, Federico Souzá, uno sceneggiatore di 53 anni, tornato per tre giorni, dal 2 al 4 marzo 2002, a Chivilcoy a causa della morte improvvisa e violenta di un amico di famiglia, Fernando Lernù, detto ‘Pajarito’, ‘uccellino’. Il padre di Federico, detto il Vecchio, come un’ombra fatta della consistenza dei silenzi e dei non detti, guida il figlio in questo suo nostos che è anche una ricerca del significato da dare alla curiosa eredità lasciata da Pajarito, una mucca.
Federico riscopre così un microcosmo in desolante disfacimento, specchio di un’intera nazione. Le sue carcasse sono come laiche rovine, reliquie di un passato che fu. La vegetazione incolta avanza selvaggia divorando e coprendo ogni traccia di antico splendore.
Storia e memoria, sebbene a volte confuse, sono due cose da tenere ben distinte, ma inevitabilmente episodi apparentemente insignificanti rimandano ai piccoli momenti fondativi della storia locale, alimentati da miti e leggende.
E le leggende, sebbene talvolta contengano qualche verità, più spesso sfiorano la menzogna e deformano la realtà.
Così una ricorrenza letta su un giornale, l’omicidio il 3 marzo del 1910 del poeta modernista Carlos Ortiz, fa riapparire le figure della professoressa Ravignani e del bidello Elvio Mangusi. E a questo ricordo personale segue la ricostruzione della genesi del film La sombra del pasado, girato da Ignacio Tankel con attori locali lì a Chivilcoy nel 1946 e incentrato sull’assassinio del poeta sodale di Rubén Darío e Leopoldo Lugones. Coautore del film, insieme a Tankel, fu Julio Cortázar, nel romanzo Julio Denis, in un intreccio di rimandi letterari dissimulati.
Paesaggi perduti, case perdute, persone perdute (Pajarito, Areco, il ciclista Carlos Luna e il suo singolare record, etc.) nutrono un sentimento di nostalgia di un sé altrettanto perduto. Provocano smarrimento e un senso di estraneità dal proprio io di oggi: «Non c’è bisogno che mi presenti. Sono lì, in un vecchio televisore fissato sulla porta principale di La Perla a parlare di me, di quello che faccio. Sono abituato a vedermi nella fissità di una foto, nel riflesso, breve, di uno specchio. Perciò mi colpisce vedere il mio volto in movimento; la bocca che si storce in modo strano, un modo normale per chi mi vede tutti i giorni, Hélène per esempio. Perché questa serie di gesti, che tutti vedono, che è parte di me, mi rende estraneo, diverso».
«Voglio raccontare la biografia di un albero», dice la fidanzata di Federico, una fotografa, una cacciatrice, anche lei come Ronsino, di istantanee.
«Come si fa, allora, a raccontare un albero?»
Lo si fa ricordando perché «ricordare è costruire un sentiero che, a forza di insistere, rimane, impresso nella terra».
Lo si fa come ha fatto Ronsino scoprendosi, in questo suo romanzo dal forte lirismo creato da piccoli periodi significanti capaci di dischiudere immagini nella mente e dare ritmo all’intera struttura, esorcista dell’oblio per il tramite della scrittura.
(Hernán Ronsino, Biografia di un albero, trad. di Stefania Marinoni, gran vía, 2015, pp. 280, euro 16)
LA CRITICA
Biografia di un albero se fosse un quadro sarebbe un’allegoria dalle pose accentuate e teatrali su di uno sfondo acceso dai toni pastello.
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