“Il negro del Narcissus”
di Joseph Conrad
Il romanzo che consacrerà Conrad come scrittore di storie di mare
di Mario Massimo / 10 giugno 2015
Gradito ritorno, in una nuova versione e in un’elegante veste editoriale, del libro che nel 1897 impose all’attenzione del pubblico inglese l’ex capitano di marina Józef Teodor Konrad Korzeniowski, destinato a diventare, col più maneggevole nom de plume Joseph Conrad, uno dei maggiori esponenti della narrativa in lingua inglese fra Ottocento e Novecento (Il negro del Narcissus, trad. Franca Brea, Mattioli 1885).
Ma non è solo nella, pur meritevole, ricomparsa di un testo di sicuro valore letterario fra le molte, effimere novità, che risiede l’interesse di questa proposta, quanto piuttosto nella possibilità che ci viene offerta, in aggiunta al piacere di lasciarci coinvolgere nel destino, appassionatamente scandagliato, di un pugnello di esseri umani: la possibilità, cioè, di cogliere accanto agli aspetti magari più datati della scrittura di questo primo capolavoro conradiano anche quelli che mantengono intatta la loro validità, se addirittura non l’accrescono, in un’ottica più moderna.
E certamente inattuale, per lettori ormai avvezzi alla poltiglia insapore della prosa usa-e-getta in cui vengono stesi di questi tempi i libri in Italia, potrà risultare il gusto conradiano per la frase ampia, articolata, per l’aggettivazione ostinatamente ricercata, e mai scontata, non scevra da echi poetici («…la nave avvolta nel silenzio esanime, una nave profondamente addormentata, senza paura, senza sogni, nel cuore di un mare assopito, ma terribile»); anche se, oggettivamente, certo metaforizzare è difficilmente compatibile col gusto attuale: «La terra oscura giaceva solitaria in mezzo alle acque, come una nave possente cosparsa di luci di posizione, una nave carica di milioni di vite, una nave zavorrata di scorie e di gioielli, di oro e di acciaio. Si innalzava immensa e forte, custode di tradizioni inestimabili e di sofferenze innumerevoli, rifugio di gloriosi ricordi e vili dimenticanze, di virtù disonorevoli e di splendide colpe».
Così come abbastanza scopertamente perseguito rischia di apparire l’intento di Conrad nel caricare alcuni dei suoi personaggi di una ingombrante valenza simbolica: tale è il cuoco di bordo, espressione di un’istanza predicatoria e penitenziale di tipo grettamente cristiano-confessionale, su cui si rovesciano già le sguaiate contestazioni dei suoi stessi compagni; o, in maniera molto più ampia e coerentemente costruita, sul piano della narrazione, il personaggio di Donkin che dà voce – cadenzata sempre in battute di dialogo di corposa efficacia comunicativa – ad accessi di protesta, rispetto all’oggettiva realtà dello sfruttamento umano praticato sui marinai di fine Ottocento, di cui non possono sfuggire le assonanze marxistiche, e su cui perciò si appunta, venato di uno stoicismo acre, il sarcasmo del narratore: «uomini [i marinai, ndr.] senza voce, ma abbastanza forti da disprezzare l’autocommiserazione sulla durezza del loro destino. C’era un solo destino ed era il loro, la capacità di sopportarlo costituiva un privilegio elettivo»; «…non viene loro consentito di meditare in pace sull’amaro e complesso senso dell’esistenza […] finché il faticoso susseguirsi di notti e giorni inquinato dall’ostinato clamore dei sapenti che reclamano felicità e un paradiso vuoto, sia riscattato dal silenzio diffuso del dolore e della fatica, dal muto timore e dal muto coraggio di uomini ignoranti, immemori e tolleranti».
Ma vi è almeno un caso in cui questo procedimento conradiano di simbolizzazione tocca esiti non solo assolutamente persuasivi, ma di smagliante livello artistico. È, questo, appunto il personaggio a cui il racconto s’intitola: James Wait (nome che provoca un decadentistico spiazzamento di fronte all’ambiguità della parola, fin dal primo momento in cui viene enunciato, durante l’appello all’arruolamento nella ciurma del Narcissus: giacché, sarà bene notarlo, in inglese suona come “aspetta”) il negro che, oltre al colore infero della sua pelle, è anche, perfino troppo emblematicamente, portatore della malattia, la tisi che gli schianta il petto fin dal suo primo comparire a bordo, e dunque della morte.
È questo suo essere portatore di morte – nonché, nella codificata superstizione marinara, della impossibilità che il vento riprenda a spirare, o che la terra avvistata venga raggiunta, finché non si sia compiuto, il suo destino di morte – a coagulare contro di lui l’ostilità, il pregiudizio, di molti dei suoi compagni: cui a sua volta Wait risponde con altrettanta, scontrosa e ulcerata, intrattabilità. Anche dopo che, nel corso di un uragano di epica violenza distruttiva che investe la nave presso il capo di Buona Speranza (e consente a Conrad di prodursi in uno strepitoso tour de force narrativo), alcuni dei marinai, fra cui lo stesso io-narrante, rischieranno la propria vita pur di strapparlo all’annegamento.
E quando, in vista dell’approdo definitivo cui al morente sarà precluso di giungere, il corpo del negro verrà finalmente lasciato scivolare in mare, cucito dal velaio dentro il suo involucro di tela bianca fra le lacrime di Belfast, l’unico, a bordo, che gli abbia voluto un po’ di bene, forse ci sembra di comprendere il modo segreto, e poeticamente inquietante, in cui questo destino di annientamento e di sconfitta si lega al rifiuto di ogni consolazione fideistica per l’amara assurdità dell’esistenza, che Conrad ha opposto all’ostinato clamore dei sapienti che reclamano felicità e un paradiso vuoto. È quando la nave è in porto, e i marinai sbarcano, a dilapidare in bevute e postriboli e vestiti nuovi sgargianti la paga che si sono guadagnata con così atroci traversie in mare “come naufraghi folli, festosi nella tempesta sopra uno sperone insicuro di roccia traditrice”, che noi sentiamo l’oscura potenza con cui questa “novità” di quasi 120 anni fa ci parla di oggi, di noi: del nostro – immutabile – destino.
(Joseph Conrad, Il negro del Narcissus, trad. di Franca Brea, Mattioli 1885, 2014, pp. 169, euro 16,90)
LA CRITICA
Uno dei primi capolavori di Conrad, che col tempo, e la “crisi delle ideologie” del Novecento, acquista un ancor più poetico valore di scandaglio gettato nel fondo del nostro destino.
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