Sun Kil Moon
@ Auditorium Parco Della Musica

Del sè, degli altri e del mondo: microstorie di una psicoanalisi in salsa folk

di / 15 giugno 2015

Solo apparentemente suddivisa in periodi, formazioni musicali e dischi, l’opera di Mark Kozelek è sempre stata in realtà un unico percorso che si compone di vari episodi, declinazioni particolari di un unico modo di intendere la musica e l’espressione artistica. Dai Red House Painters fino ai contemporanei Sun Kil Moon, infatti, il cantautore dell’Ohio si è reso protagonista di uno dei percorsi più originali e coerenti, che si sviluppa in una continua reiterazione con variazioni sul tema di alcune importanti intuizioni artistiche.

Assistere ad un concerto di Kozalek equivale ad intraprendere un viaggio nella vita dell’artista. Un viaggio diaristico che si costruisce sulla narrazione di piccoli eventi, di microstorie personali che si fanno temi universali dipingendo un mondo personale vasto, molteplice e sfaccettato, dove la storia individuale si espande fino a diventare, potenzialmente, storia di tutti. I suoi testi sono infatti simili ad una confessione esistenziale che prende spunto da episodi quotidiani insignificanti che però assumono, grazie anche al pathos distorto di un folk schizofrenico e a tratti delirante, che spazia dall’hip hop cantautorale al grounge, una dimensione più ampia, sino al punto che l’artista sembra tentare una sorta di psicanalisi di se stesso in forma
di musica.

Proprio la forma musicale proposta nell’ultimo lavoro, intitolato significativamente Universal Themes, sembra subire lo scarto maggiore rispetto al passato. Se, infatti, il lavoro sulle liriche prosegue lungo la metodologia diaristica appena ricordata, viene abbandonata quasi del tutto la forma canzone, traslandola in brani che superano largamente i sei o sette minuti. Essi diventano più che altro dei contenitori multiformi, al cui interno ogni cosa sembra permessa. La fantasia di una band che vede tra le sue fila anche l’ex Sonic Youth Steve Shelley si scatena in esperimenti fatti di continui cambi di ritmo e atmosfera: si passa con una semplicità disarmante dalla dolce e pacata ballad all’urlo rabbioso, dall’hip hop a-là Beck al riff martellante che fa da base ai monologhi di Kozalek.

È un’esperienza musicale che produce emozioni contrastanti, in un chiaroscuro semplice e caravaggesco riprodotto anche dall’impatto visivo di un gruppo incorniciato da luci soffuse, in un palco sul quale Kozalek passeggia incessantemente mentre racconta i suoi affanni quotidiani. Emozioni contrastanti, si diceva. Si ha la sensazione, a volte, di muoversi in una caverna nera, che va restringendosi fino al punto che nessun essere umano riesca neppure a strisciare, mentre la luce svanisce e l’aria è sempre più rarefatta. Proprio in quel punto, nel momento di massima rabbia, angoscia o solitudine, puntuale quanto inatteso arriva il raggio di sole, basso sull’orizzonte, velato da nubi soffuse, ma dolce e delicato come l’arpeggio di chitarra che lo accompagna. Sono proprio questi cambi improvvisi a fornire gli spunti più preziosi di un’esibizione a metà tra narrativa contemporanea e concerto folk-blues.

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“effe – Periodico di altre narratività” numero dieci

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