“Ant-Man” di Peyton Reed
Un nuovo supereroe in miniatura
di Francesco Vannutelli / 24 luglio 2015
Era lecito aspettarsi una catastrofe da Ant-Man, nuovo film di casa Marvel che lancia l’ennesimo supereroe nel cosiddetto Marvel Cinematic Universe e arriva a concludere l’altrettanto cosiddetta Fase 2 dei cinecomic in attesa di Captain America: Civil War che introdurrà la Fase 3, quella della discordia.
Una catastrofe, si diceva, perché Ant-Man non rientrava nei progetti di Kevin Feige, il presidente della Marvel che tutto decide e tutto coordina. Non c’era spazio, per l’uomo formica, nel suo mondo cinematografico. A convincerlo, si dice ormai quasi dieci anni fa, sono stati i registi e sceneggiatori di culto Edgar Wright e Joe Cornish (il primo ha scritto e diretto film come L’alba dei morti dementi e Scott Pilgrim vs. The World, il secondo Attack the Block) che avevano un’idea precisa e forte per il loro debutto nel mondo dei cinefumetti. Sulla carta, le premesse erano le stesse, o comunque molto simili, di Guardiani della galassia, affidato a un regista, James Gunn, con una personalità cinematografica piuttosto marcata che ha contribuito a fare di Starlord e soci i protagonisti di uno dei migliori film Marvel di sempre. Solo che tra la coppia Wright-Cornish e Feige non tutto è andato per il meglio, e a soli quaranta giorni dall’inizio delle riprese Wright si è chiamato fuori abbandonando la regia del progetto che proprio lui aveva insistito per far nascere.
Impensabile lasciar naufragare Ant-Man, dopo gli annunci e l’attesa e la costruzione di uno spazio in cui infilarlo nell’universo Marvel. Si è pensato, quindi, di rilavorare rapidamente il copione, affidandolo a Adam McKay, che ha scritto, diretto o prodotto gran parte delle commedie demenziali degli ultimi anni (i due Anchor Man ma anche il recentissimo Duri si diventa), e al protagonista Paul Rudd. Alla direzione è stato chiamato un regista più docile come Peyton Reed, che non dirigeva qualcosa per il cinema dal 2008 (Yes Man, con Jim Carrey) e nel frattempo ha fatto tanta televisione. Le premesse, adesso, sembravano portare piuttosto verso un progetto stiracchiato a forza, voluto far arrivare in sala solo per tenere il punto, invece Ant-Man è una sorpresa per come riesce a coniugare il mondo Marvel con il carattere della commedia – un po’ come era già successo con Guardiani della galassia – dimostrandosi in grado, per di più, di proporre dei discorsi ulteriori sulle dinamiche padri-figli.
La trama unisce in un unico filone narrativo due Ant-Man della tradizione fumettistica (sono tre in tutto). Da una parte c’è Henry Pim (niente meno che Michael Douglas, che si diverte sempre di più dopo la malattia), inventore per la Stark Industries uscito dalla società negli anni Ottanta per il disaccordo sull’utilizzo della tecnologia riduttiva da lui inventata che permette a un uomo di ridursi alle dimensioni di una formica. Proprio la sua scoperta gli aveva permesso di diventare uno dei più preziosi agenti segreti negli anni Sessanta, capace di infiltrarsi ovunque. Quando aveva abbandonato la Stark si era portato via il segreto delle sue scoperte. Adesso, Darren Cross, quello che un tempo era stato il suo allievo, sembra essere arrivato a poter sviluppare la stessa tecnologia e non si fa problemi a venderla al miglior offerente. Per evitare che il potere di Ant-Man finisca nella mani sbagliate, Pim contatta Scott Lang (Paul Rudd, visto in tantissime commedie e lontano dall’immagine abituale del supereroe, e questa è un’altra forza del film), un ladro con un master in ingegneria informatica appena uscito dal carcere che sta facendo di tutto per riconquistare la fiducia di sua figlia.
Questa insistenza sul legame tra Lang e la figlia, una bambina di quattro anni cresciuta dalla madre con un altro uomo, che per di più è un poliziotto, quindi antitesi di Lang, che si lega poi al rapporto complesso che Pim ha con la figlia adulta che mai gli ha perdonato la scomparsa della madre (se sia colpa di Pim o meno lo scopriremo solo vedendo), riconduce Ant-Man a una dimensione nettamente più umana rispetto alla tradizione recente Marvel. A parte i momenti in cui Lang è Ant-Man, con il costume e le dimensioni ridotte, il film di Reed è molto più vicino a una normalità possibile fatta di brutti appartamenti e lavori in fast food che al titanismo degli altri eroi Marvel. Del resto, per lui gli Avengers sono dei miti distanti, da chiamare per risolvere il problema di Cross. Sono loro, i supereroi, lui è solo un ladro che si arrangia. Sicuramente, il doppio trattamento Wright-Cornish e McKay-Rudd ha contribuito a fare di Ant-Man un tipo molto più normale rispetto a quanto visto finora nei film Marvel. Proprio per questo, tutto il film risulta più normale e accessibile, lontano dalla ormai dominante tendenza alla magniloquenza ed esagerazione dei vari film dei singoli Avengers. Anche il minutaggio è normale, il che è solo un bene per la trama che non si sfilaccia né disperde.
Certo, c’è da superare un pre-finale che ricorda quasi Interstellar, con Lang che orbita nel mondo sub-atomico e trova la via di fuga grazie alla forza dell’amore (con annesso precedente spiegone sulla fisica dei quanti), e tutto sommato i conflitti tra i padri e le figlie sono poco più che pretesti per fare presa emotiva sul pubblico, ma Ant-Man va più che bene così com’è, con questa sua anima di commedia che non si prende sul serio e infila anche momenti di vera e propria comicità.
Per assurdo, tutto il film avrebbe potuto funzionare meglio se isolato dal resto del Marvel Cinematic Universe, perché sono proprio i riferimenti al resto del mondo dei supereroi a filare meno del resto, a risultare infilati a forza per trovare uno spazio ad Ant-Man all’interno del gruppo. Questo, in generale, è il limite maggiore che la Marvel sta correndo negli ultimi anni. Perché la costruzione a tutti i costi di questo universo coerente e unico si riflette ogni volta sui singoli copioni che vengono indeboliti della loro specificità per essere collocati nel progetto più grande. È la schiavitù del sequel portata alle estreme conseguenze del franchising applicato al cinema.
(Ant-Man, di Peyton Reed, 2015, commedia/azione, 128’)
LA CRITICA
Parallelamente al grande successo degli Avengers, la Marvel sta sviluppando un nuovo filone in cui si prende meno sul serio. Ant-Man ne fa parte, e proprio per questo funziona, sia come film d’azione che come commedia.
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