“Land of Mine” di Martin Zandvliet
Una pagina poco conosciuta della Seconda Guerra Mondiale
di Francesco Vannutelli / 20 ottobre 2015
Una delle conseguenze meno conosciute della seconda guerra mondiale è il perno narrativo di Land of Mine (in Italia sarà distribuito come Sotto la sabbia) del danese Martin Zandvliet, visto stamattina all’Auditorium dopo essere passato, secondo una prassi ormai consolidata negli ultimi anni, per il Toronto International Film Festival.
Nel 1945, subito dopo la fine del secondo conflitto globale, nella Danimarca appena liberata dal nazismo si contavano quasi due milioni di mine nascoste sotto la sabbia delle coste, più di quante ce ne fossero in tutto il resto d’Europa messo insieme. Per liberare il Paese dagli ordigni, il comando alleato decise di usare i prigionieri di guerra tedeschi per smantellare le bombe a mani nude e senza nessuna preparazione specifica. Il sergente dell’esercito danese Rasmussen riceve l’incarico di comandare un reparto di quattordici prigionieri per bonificare un tratto di costa infestato da quarantacinquemila mine. Si troverà davanti un gruppo di ragazzini spaventati che vogliono soltanto tornare a casa.
Nella verità della storia, circa duemilaseicento soldati tedeschi vennero costretti a sminare le coste danesi alla fine della seconda guerra mondiale. La maggior parte aveva tra i quindici e i diciotto anni ed era stata reclutata a forza dal Reich nei mesi drammatici che precedettero la resa, per rimpolpare un esercito sempre meno numeroso. Più della metà di questi ragazzini perse la vita nelle operazioni di sminamento o rimase gravemente ferito. La Danimarca e il comando britannico costrinsero i prigionieri in aperta violazione della Convenzione di Ginevra del 1929 che vieta per i detenuti in tempo di guerra i lavori forzati o potenzialmente pericolosi. Nelle immediate conseguenze di un conflitto, e di un occupazione durata cinque anni, il sentimento prevalente tra il popolo danese era un odio senza troppe riserve per tutto quello che fosse tedesco. Lo si vede all’inizio del film, con il sergente Rasmussen che brutalizza un prigioniero in marcia colpevole di essersi portato via una bandiera danese. L’odio verso un’entità astratta, del resto, verso una categoria umana, un’idea, il tedesco (o altro in generale) in assoluto, è un sentimento da cui è molto facile lasciarsi sopraffare, soprattutto quando c’è un passato di soprusi e prevaricazioni. A quel punto è facile, per un comando distante, decidere di affamare i prigionieri, di usarli come esche umane per l’esplosivo come catarsi violenta per la colpa dell’invasione. Diventa tutto un altro discorso quando questa entità inizia ad assumere un volto, un nome, una vita.
Lo sfruttamento dei prigionieri di guerra in Danimarca è ancora oggi un argomento tabù, un motivo di profonda vergogna per l’identità nazionale. Il regista Martin Zandvliet sceglie di non dare nessuna inquadratura politica al suo racconto limitandosi a mostrare e a raccontare i fatti. Non c’è condanna per i vertici danesi che decisero di sfruttare i tedeschi, non c’è ideologia. È una storia di umani che incontrano umani, di ragazzini che sognano di tornare a casa per mangiare il cibo cucinato dalla madre, per avere una ragazza, per fare i muratori in un paese da ricostruire alla fine della guerra.
I ragazzi agli ordini di Rasmussen sono vittime della guerra, non sono responsabili delle colpe del Reich nazista. Questa è la novità del punto di vista di Land of Mine che riesce a far capire come le distanze, per quanto immense, siano superabili con l’incontro e come anche tra i vincitori e vinti non ci siano differenze. Lo spettatore è abituato a vedere la Germania nazista come il Male per eccellenza. Qui viene ricordato che il male non risponde a una sola bandiera, ma solo all’istinto umano.
Piuttosto schematico in alcuni passaggi chiave, questo quarto film di Martin Zandvliet ha il pregio di essere un apologo non banale sul senso della vendetta e del perdono, sul peso della responsabilità collettiva su quella individuale, sulle colpe della storia e sui suoi silenzi.
(Land of Mine, di Martin Zandvliet, 2015, drammatico, 101’)
LA CRITICA
La colpa dei vincitori e la sua rimozione. Land of Mine affronta una pagina meno conosciuta della seconda guerra mondiale e ha il coraggio di mostrare come la vicinanza umana possa porre fine alle ostilità e al rancore.
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