“Dobbiamo parlare” di Sergio Rubini
Il confronto di coppia in una nuova commedia borghese
di Francesco Vannutelli / 21 ottobre 2015
Terzo film italiano della selezione ufficiale della decima edizione della Festa del Cinema di Roma, Dobbiamo parlare segna il ritorno alla regia di Sergio Rubini due anni dopo Mi rifaccio vivo. Cambia la cornice e il tema, non più la Puglia e il racconto di ampio respiro ma un cast ridotto in un unico ambiente romano.
Dobbiamo parlare, come la frase standard che dà il via ai discorsi conclusivi delle relazioni si concentra su una doppia coppia in crisi in cornice borghese. Vanni è uno scrittore cinquantenne autore di numerosi romanzi di successo. Da qualche anno la vena si è un po’ spenta, ma continua a vendere grazie al contributo in scrittura di Linda, la sua giovane compagna che gli fa da ghostwirter, segretaria, addetto stampa e così via. Una sera, prima di una cena con l’editore, si vedono piombare nel loro elegante attico nel centro di Roma l’amica di sempre Costanza, in piena crisi con il marito Alfredo, detto il Prof, luminare della cardiochirurgia. Costanza ha scoperto che Alfredo la tradisce e si sfoga con gli amici progettando il divorzio. Arriva anche Alfredo e quella notte diventa una resa dei conti generale per tutti e quattro.
Ci sono due diversi tipi di borghesia, in Dobbiamo parlare, da un lato quello radical chic intellettuale, astratto, indifferente al denaro e incline a ogni forma d’arte. Dall’altro quello concreto, in carriera, organizzato e gestito come un’impresa, che minimizza le forme d’arte a categorie minimali (parlando di Basquiat, «Questo potrebbe farlo pure mio nipote di cinque anni», che sarebbe una battuta trita e ritrita, ma viene servita bene). Dovrebbero essere, ancora, sinistra e destra. La differenza politica, però, emerge soprattutto da alcuni scambi decisamente fuori contesto, con riferimenti al PD messi lì così.
Si sente molto l’impianto teatrale del progetto, che infatti nasce come testo per il teatro per poi essere convertito per il grande schermo. Perché Sergio Rubini, con Diego De Silva e Carla Cavalluzzi, ha iniziato a scrivere Dobbiamo parlare per il palcoscenico, poi è passato al grande schermo e nei prossimi mesi il testo torna a teatro, con lo stesso cast e il titolo leggermente cambiato Provando… Dobbiamo parlare.
L’influenza del teatro di Yasmine Reza è evidente, in particolare di quel Dio del massacro trasformato in Carnage e in grande cinema da Roman Polanski. La struttura di confronto tra due coppie, la cornice dell’appartamento e della borghesia, l’isteria crescente servono infatti come camera di incubazione del massacro finale, della mostra delle bugie della vita insieme, delle ipocrisie delle amicizie e delle relazioni. È simile infatti anche a Il nome del figlio che a Polanski già doveva un bel po’. Proprio per questo, Dobbiamo parlare non ha molto di nuovo da dire nel panorama del cinema borghese che parla a se stesso e la gabbia del teatro è troppo stretta per lasciare piena libertà di sviluppo. C’è anche quella ridondante e superflua voce fuori campo che presenta il film affidata ad Antonio Albanese nei panni, o nelle pinne, niente meno che del pesce rosso di casa.
Quel qualcosa in più viene dai personaggi, da come sono costruiti e come sono interpretati dal cast: Sergio Rubini che fa Vanni, Isabella Ragonese che fa Lidia, Fabrizio Bentivoglio che fa il Prof, con una carica di romanità volgare inedita, e Maria Pia Calzone (la donna Imma di Gomorra – La serie, che ormai ha una carriera cinematografica lanciatissima). Pur giocando con gli stereotipi dell’intellettuale e del generone romano, dell’ipocrisia borghese e dello snobismo radical chic, Rubini riesce a muoversi all’interno del modello del teatro francese già responsabile di Carnage e Il nome del figlio inserendo alcuni elementi di novità per la resa dei conti finale che porta fragilità inattese e una sostanziale accettazione dell’ipocrisia come rimedio necessario per la vita d’oggi.
(Dobbiamo parlare, di Sergio Rubini, 2015, commedia, 98’)
LA CRITICA
Sergio Rubini torna a un impianto teatrale simile al suo esordio da regista con La stazione. Decide di guardare al modello della commedia borghese alla francese. Non fa molto di più del minimo indispensabile del modello. Come sempre in questo genere di film, la differenza la fanno gli attori.
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