“La felicità dell’attesa”
di Carmine Abate

La saga generazionale di una famiglia migrante che gravita attorno a un paesino calabrese immaginario

di / 9 novembre 2015

Carmine Abate è abile nel raccontare storie di immigrati: la sua è una famiglia di sradicati, un clan di diasporici che da un paesino della Calabria arberëshë si è disperso nel mondo.  Stati Uniti, Germania, molte delle tappe della sua storia parentale ritornano in La felicità dell’attesa (Mondadori, 2015).

Il romanzo è diviso in blocchi scanditi dalle partenze dei vari membri familiari: tutto comincia con la dipartita di Carmine Leto, che a bordo del transatlantico Sardegna raggiunge Ellis Island per tentare la sorte negli Stati Uniti dei primi del Novecento, e finisce per tornare a casa con una bella moglie afroamericana. Tutto finisce con un altro Carmine Leto, il nipote di quel primo migrante, che ritorna a Hora per stare al capezzale del padre e attraverso il ruolo di narratore ricongiunge la ragnatela di storie della famiglia.

Il libro affronta i temi classici della migrazione: la voglia di progresso e la necessità di rimanere fedeli alla tradizione, l’adrenalina del nuovo e la sicurezza del conosciuto, l’educazione dei figli in bilico tra metodi classici e concessioni moderne.  L’aspetto che l’autore riesce a raccontare con più delicatezza, però, sono i sottili malumori che serpeggiano nelle famiglie: i torti irrisolti, le frasi dette e le ferite invisibili che caricano di declinazioni spiacevoli questa istituzione imprescindibile dalle esistenze individuali.

Il personaggio migliore dell’intera storia è senza dubbio Shirley Leto, la donna per metà afroamericana e per metà irlandese che per amore si trasferisce a Hora, impara l’arberëshë, l’italiano, il ritmo delle giornate contadine e l’arte della cucina calabrese, e si guadagna il rispetto locale nonostante le iniziali titubanze: «Mericana? Così nìvura? Sembra che viene dall’Africa», messe presto a tacere dal marito infuriato «Proprio voi parlate accussì, voi che alla bella stagione avete la cera annottata dei fichi nivurelli, più dei nigri veri!». Shirley, ribattezzata Scilla per comodità di pronuncia dagli abitanti del paese, è l’essenza dello spirito nomade, e incarna l’apolidia dei migranti in cerca di un’identità da definirsi: discendente di schiavi africani e di irlandesi approdati negli Stati Uniti per vicissitudini infelici, giunge nel luogo da cui tutti partono, Hora, per stabilircisi, ma dà vita suo malgrado a una nuova generazione di diasporici, che migrerà ancora.

Il linguaggio del romanzo rivela un serio lavoro di ricerca glottologica, e cambia a seconda del tempo e dei personaggi raccontati, ripulendosi mano a mano dalle influenze dialettali e italoamericane per arrivare all’italiano pulito del narratore contemporaneo, Carmine Leto.

Forse La felicità dell’attesa non è un testo memorabile, ma è sicuramente necessario. Non  è indimenticabile perché lo stile narrativo a volte risulta semplice, a tratti scontato, forse un po’ buonista. Ma di questi tempi immedesimarsi in una storia di migrazione – aiutati nel processo di identificazione dalla provenienza geografica dei personaggi  – è una simulazione necessaria per approcciarsi con coscienza alle cronache delle migrazioni attuali. Dev’essere questo lo scopo di Abate, dopotutto.

 

(Carmine Abate, La felicità dell’attesa, Mondadori, 2015, pp. 360, euro 19)

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LA CRITICA

Una storia di gioie semplici e dolori comuni, una saga familiare con le sue amarezze e i suoi affetti. Anche se, leggendola, non si incappa in una rivelazione letteraria, se ne apprezza  il buongusto e la destrezza narrativa.

VOTO

7/10

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