“Mainstream” di Calcutta
Discorsi sul primitivo, sulla semplicità e su altre dimensioni periferiche dell’essere umano contemporaneo
di Valerio Torreggiani / 16 dicembre 2015
La semplicità, diceva Calvino, non è il risultato di una difficoltà evitata, ma il frutto di una difficoltà risolta. In questa attesa seconda prova, Calcutta sembra riproporre il suo metodo collaudato, fondato sull’istinto anziché sul ragionamento, che produce canzoni semplici e malinconiche, inni sussurrati della periferia metropolitana.
Non sia, infatti, d’inganno il titolo: di Mainstream, in queste tracce, c’è ben poco. Nonostante una produzione leggermente più accurata, sia nei suoni che negli arrangiamenti, la fragilità armonica è, come in passato, la cifra stilistica più riconoscibile. La veste semplice, d’altronde, è quella che meglio si presta ad accompagnare le piccole storie e gli eventi minori che affollano questo nuovo, breve capitolo del canzoniere calcuttiano.
Il mondo vissuto è descritto seguendo una prospettiva obliqua. La realtà non è mai osservata direttamente, ma viene intercettata per vie traverse, prediligendo eventi comuni e particolari quotidiani. Sono piccole narrazioni provinciali di un mondo popolato da solitudini notturne, periferie anonime e vite precarie, che si aggrovigliano in contorte storie d’amore a distanza. Un mondo che esce dall’ombra per mostrarsi nella sua estrema frammentarietà, rimanendo, tuttavia, sempre estremamente composto ed educato.
L’architettura del disco oscilla tra una disarmante semplicità e un’assurda follia. Tutto, in queste canzoni, è chiaro senza essere limpido; c’è tutto, ma nulla è realmente tangibile. Le felici intuizioni melodiche – vero marchio di fabbrica di Calcutta – si sommano ad una costruzione armonica che risulta splendida nella sua gracilità: perfetta per accompagnare un racconto pacatamente nonsense, squisitamente semplice.
Un disco fragile, dimesso, a metà strada tra Daniel Johnston e Rino Gaetano: primitivista non per scelta, ma per indole. Canzoni che, per parafrasare Salinger, fanno venire voglia di chiamare l’autore: scambiarci due parole, chiedergli come sta.
LA CRITICA
Un lavoro che, sulla scia dell’esordio, conferma quanto di buono già fatto. Un unico appunto: per un giovamento complessivo, si torni alla sola chitarra. L’effetto è assicurato.
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