“Blackstar” di David Bowie
L'ultima Opera struggente di un artista senza limiti
di Redazione / 24 febbraio 2016
Inauguriamo la nuova rubrica “IlProcesso”. Ogni mese, la redazione di Musica scriverà un articolo corale su quello che verrà ritenuto, per diversi motivi, l’album più interessante e quindi da approfondire. Un articolo in cui ognuno esprimerà la propria visione, con l’obiettivo di creare un dialogo dove più voci potranno essere d’accordo o scontrarsi tra di loro. In questo caso, testimone anche la scelta unanime del voto, otto, fortunatamente o sfortunatamente, abbiamo tutti concordato sulla bellezza intrinsteca di quest’album. Ma non vi anticipiamo altro. Valerio Torreggiani, Alessio Belli, Federico Lorenzelli e Tommaso Di Felice iniziano, con voluto ritardo per poterne parlare con più distacco emotivo possibile – la morte di un artista stravolge, in qualche modo, la visione che si ha di ciò che ha prodotto –, con Blackstar di David Bowie.
VT: La stella nera è, almeno per me, astronomo profano, sostanzialmente simile a un buco nero. Scientificamente parlando non ho idea di quali siano le differenze tra i due elementi. Poeticamente parlando, però, mi sembra che la stella nera possa essere assunta a simbolo di mistero e d’ambiguità, campi nei quali Bowie è da sempre maestro: ambiguità sessuali, musicali, artistiche, identitarie. Di più: la stella nera sembra indicare un percorso, classico nelle sue forme, di smarrimento, ricerca e rinascita: «digging in the dirt», cantava un altro grande come Peter Gabriel. Blackstar incarna così la metafora astronomica di volontà di ricerca di suoni e forme musicali poco esplorate. La title-track è in questo senso totemica. Un trattato sintetico di sincretismo musicale: un riassunto di una carriera e – ahimè – di una vita intera. Il canto sofferto, la batteria incalzante, gli inserti jazzistici di sax e flauto; le orchestrazioni sinuose, l’atmosfera rarefatta e decadente; infine le aperture melodiche, in pieno stile bowiano. Se ci aggiungete “Lazarus”, con il suo incedere noise-noir, l’unica traccia secondo me davvero in continuità con il periodo berlinese – sembra uscita da Heroes – le coordinate del disco ci sono già tutte. Le altre tracce sono certamente belle canzoni, ottimamente pensate e realizzate, come “Dollar Days”, ad esempio, ballata intelligentissima; ma aggiungono poco a quanto già espresso da Bowie nei due brani precedentemente menzionati. Sono un gustoso contorno di una portata principale prelibatissima.
AB: La stella nera in questo caso – purtroppo – è anche qualcosa di associabile al lutto, alla dipartita, al proprio congedo. David Bowie quando inizia a concepire nella sua mente questo nuovo disco sa già che molto probabilmente sarà l’ultimo e dispone con sapiente e dolorosa perizia alcuni indizi tra i brani e i video. Per il sottoscritto, la prima fruizione di Blackstar – ovvero il videoclip dell’omonimo brano – , è stata una autentica ed ennesima folgorazione e l’immagine del teschio sotto la cupola spaziale si è rilevata in tutta la sua dolorosa potenza. Ancora più sofferti i versi del secondo singolo “Lazarus”: «Look up here, I’m in heaven I’ve got scars that can’t be seen I’ve got drama, can’t be stolen Everybody knows me now» Ma per quanto sia difficile prescindere dalla scomparsa dell’artista, è dovere di chi scrivere concentrasi sull’album, sulla musica e provare ad andare oltre l’addio di Bowie. La prima cosa da fare è notare il distacco rispetto a The Next Day. Il predecessore di Blackstar ci mostrava un Bowie ispirato e perfettamente realizzato in una purissima forma pop essenziale e d’impatto: una dimostrazione notevole da parte di chi si è permesso di scuotere la musica contemporanea fin dalle fondamenta. Ed adesso, con il senno di poi, riascoltare un pezzo come “Where Are We Now?” fa scender ancora più lacrime. Il successo di The Next Day (lavoro inaspettato visto l’annunciato ritiro dalle scene) ha portato Bowie a lavorare ad una seconda opera in cui prende forma la sua indole più sperimentale e teatrale. Sorvolando sui più o meno fattibili paragoni con la Triologia Berlinese (che per me rimane molto probabilmente il punto più altro raggiunto dalla musica “leggera” negli ultimi quarant’anni), la stella nera brilla di luce (oscura) propria. Blackstar è un viaggio profondo e intenso in cui il freejazz si mescola al noise, al prog e al dub e dove tutto però è sempre dominato dalla voce di Bowie, l’unica ancora di salvezza in questo percorso apocalittico. Avremmo parlato di capolavoro assoluto anche senza la dipartita del Duca bianco? Sì. Largo ai detrattori, qualora ci fossero.
FL : Ispirato da To Pimp a Butterfly del rapper Kendrick Lamar e dal duo elettronico Boards Of Canada, Bowie crea un pastiche sapiente di sonorità elettro – jazz, chitarre e fiati che si alternano, si mischiano, si separano, il tutto scandito da martellanti ritmiche dal sapore hip hop. Un album che riesce nella non semplice impresa di unire generi musicali ancora distanti, e di confezionare un disco lontano dai precedenti lavori, in antitesi con essi sia per contenuti che per suoni. Bowie parla di sé al passato, ora in terza persona, ma non è ancora pronto ad andarsene, a smettere di esprimersi, e ce lo fa capire, ce lo dice. Ed è quindi facile dire adesso che in Blackstar si possono percepire gli “ultimi” respiri musicali di Bowie; ma senza la sua dipartita avremmo comunque avvertito questa atmosfera noir come un lascito sonoro, magari non come un testamento, ma certamente come un disco agrodolce e anti-pop di un artista consumato che ancora ha la voglia di sperimentare e di indicare percorsi da esplorare. Chiude questo piccolo capolavoro, troppo breve per scelta o per necessità, con il lamento della sua voce, calma, pulita, triste:
«Seeing more and feeling less Saying no but meaning yes This is all I ever meant That’s the message that I sent I can’t give everything away»
La carriera di Bowie, si sa, è stata sempre caratterizzata sin dal principio dal cambiamento e perché no, anche da scelte non sempre corrette; ma questo è sempre stato il maggior pregio del Duca bianco, la voglia di sperimentare, di osare, di cambiare, di dettare i tempi e le mode, con le sue anticipazioni ante-litteram musicali, i suoi look androgini, glam rock, i molteplici personaggi interpretati, ma da vero gentleman inglese con l’eccentricità estrema che solo un inglese potrebbe avere. Si è sempre circondato di gente geniale e capace, Brian Eno, Tony Visconti, Stevie Ray Vaughan e Nile Rodgers, Iggy Pop, Lou Reed, l’elenco prosegue per ore, e in Blackstar non è da meno; Tony Visconti ancora una volta alla produzione lo accompagna nell’ennesimo esperimento. E come nel decennio d’oro degli anni ’70, ancora una volta è un successo.
TDF : È davvero difficile scrivere qualcosa riguardo a Blackstar. Smaltita la sbornia di RIP, l’esplosione dei social network, i vari flash mob e persino le commemorazioni dei media nazional-popolari, ora sì che si può dire qualcosa di più sull’ultimo lavoro di Bowie. Chiaro, quello che è successo due giorni dopo l’uscita dell’album ha avuto un peso non indifferente sulla stragrande maggioranza delle recensioni. Lasciarsi trascinare da questo isterismo collettivo del “eravamo tutti fan di X”, misto alla tristezza per la scomparsa di uno dei più grandi artisti del secolo scorso, è la cosa più sbagliata. Blackstar, indubbiamente, è stato un addio. Un addio incompreso perché nessuno o quasi aveva immaginavo minimamente cosa stesse per succedere. Certo gli elementi non mancavano mica: la stessa “Blackstar”, con i suoi dieci minuti, è la morte fatta musica e parole. Il video, poi, è un concentrato di angoscia e disperazione: teschi, eclissi e candele accompagnano strane figure impegnate in riti poco chiari. D’altronde pochi artisti hanno usato e giocato con l’immagine come il caleidoscopico Duca Bianco, confondendo e rinnovandosi continuamente. Anche “Lazarus”, per parole, arrangiamenti e video, è sulla stessa lunghezza d’onda. Il resto dell’album è qualcosa di completamente diverso, la voce si fa più calda e profonda, torna la luce oltre l’oscurità e qualche romantica ballata dal sapore marcatamente jazz chiude il tutto. Il bianco ed il nero insieme. Come aveva annunciato Tony Visconti, poco spazio al rock e così è stato. Blackstar potrebbe essere un album del 1978, come del 1994 o del 2030. Non ha tempo ed è geniale come tutto il resto della discografia, sempre attuale. Personalmente, rimarrò molto legato a Low e a “Warszawa”: correva l’anno 1976 e Bowie stava viaggiando con Iggy Pop, in treno, da Zurigo a Mosca. Il cantante londinese passò alcune ore a Varsavia, più precisamente tra la stazione di Dworzec Gdański e il quartiere di Żoliborz. Nella desolazione di quelle ore, nel grigiore di un distretto residenziale ma non troppo, David Bowie trovò la giusta ispirazione per comporre quel brano, con l’immancabile aiuto di Eno. Si dice che lo stesso Ian Curtis, ossessionato dalle funeree melodie e dalle distorsioni di “Warszawa”, decise di cambiare il nome degli Stiff Kittens in Warsaw, che da lì a poco diventarono i Joy Division. Ma questa è un’altra storia. Giù il sipario.
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