“Né in cielo né in terra” di Paolo Morelli
Il rimpianto come condizione permanente dell’essere umano
di Chiara Gulino / 4 luglio 2016
Paolo Morelli, artista poliedrico, ex jazzista, sceneggiatore, regista, critico cinematografico e letterario, ma soprattutto scrittore romano, in Né in cielo né in terra (Exòrma, 2016) ci catapulta in una sorta di aldilà che è ancora un aldiquà, declinando la sua pervasiva ironia in giocosità e humour ma anche in amarezza, smarrimento e attesa.
Cartesio immaginò un Genio Maligno pronto a ingannarci sistematicamente, facendoci credere di vivere nella realtà mentre invece stavamo solo sognando.
Né in cielo né in terra sceneggia le sue vicende in un vecchio palazzo decadente in zona Trastevere a Roma. Da subito il lettore capisce di trovarsi in un mondo fuori asse e un po’ bizzarro, proprio come Alice di Lewis Carroll quando precipita nella tana del Bianconiglio. Solo che qui non ci sono Regine di cuori, Cappellai matti o altri strambi personaggi ma un gruppo di persone sospese tra la vita e la morte. La loro essenza sta in un’ineliminabile provvisorietà, la loro stessa presenza è un mistero. Ci si palesa davanti un teatrino di cartapesta con tutte le ambiguità, le luci e le ombre che portano con sé dei fantasmi. Sono parvenze d’identità derelitte. Le loro storie s’intrecciano con situazioni beckettiane con in più lo spirito di contraddizione e il lassismo tipicamente romanesco: «…ecco il punto, noi qui sappiamo di non essere altro che comparse […] Dicesi romano vero chiunque, essendo nato a Roma, subisca in maniera continuativa, e reagisca sostanzialmente avvertendone poco o niente, a volte pure accorgendosene poco, come se tanto livore gli sia quasi dovuto in virtù di una superiorità fatale…».
La voce che ci parla, ci richiama all’attenzione e a volte ci interpella direttamente è quella di un ghostwriter che decide di venire in aiuto di «uno scrittore di memorie che dice di chiamarsi Cesare se ne sta davanti allo schermo azzurrognolo ma non gli viene in mente niente». Quello di Augusto (così lo appella Cesare ma non è il suo vero nome…) si presenta sin dall’inizio come un compito improbo. L’obiettivo dello strano condominio è quello di scrivere un libro di successo così da guadagnare i soldi necessari per evitare lo sfratto dall’antica palazzina di Trastevere. L’occasione è quella per l’autore di far rivivere le anime di amici precocemente scomparsi.
Paolo Morelli per questo suo romanzo si è dichiaratamente ispirato a un film di Antonio Pietrangeli del 1961 con Mastroianni, Vittorio Gassman, Eduardo De Filippo e Sandra Milo, Fantasmi a Roma. Il film parla di quattro fantasmi, tutti vittime di morte violenta, antenati del principe di Roviano con il quale vivono in un antico palazzo di Roma. Tutto trascorre tranquillo fino alla morte del principe provocata dallo scoppio di una caldaia, quando su tutti incomberà la minaccia dello sfratto.
L’autore eccelle nelle invenzioni funamboliche. Più che la sostanza, ciò che conta è il suono di certe parole che si dissolve nell’aria in un ghigno dissacrante. Persino i nomi dei personaggi sono parlanti: Cesare, Vibenna, Musonio, Ottavia, etc.
Ridere è spesso l’arma degli sconfitti dal senso comune e dal dilagante conformismo ipocrita. La prosa ha in sé una natura divagatoria, tanto che è stata accostata a quella di Paolo Nori. Tale natura l’ha nello stile e nella lingua. Quando una prosa del genere prova a raccontare, lo fa in modo centripeto per cui ogni divagazione torna sì sul tema ma allo stesso tempo, a partire da una situazione che apparentemente non lo riguarda per niente, racconta di nuovo tutto da capo quel tema. Ciò che ritorna è l’idea del rimpianto come condizione permanente dell’essere umano.
(Paolo Morelli, Né in cielo né in terra, Exòrma, 2016, pp. 240, euro 12,50)
LA CRITICA
I protagonisti di Né in cielo né in terra di Paolo Morelli sono campioni delle cause perse. Nuocciono alla generosità delle trovate alcuni dialoghi che surfano in superficie alla ricerca forzata della simpatia.
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