“Le cose che restano”
di Jenny Offill

di / 14 settembre 2016

Copertina di Le cose che restano di Jenny Offill

Quali sono Le cose che restano? Almeno per me, non quelle dimesse, orchestrate con cura nella quiete più tonda. Le frattaglie impiegatizie, piene di cassetti e di bucati estivi.

Quelle sono fatte per evaporare, sono panchine in attesa dei graffi. Ogni esperienza chiama ferite, così come leggere. E questa storia mi ha sfregiato, nel petto pieno delle mie vacanze. Le cose che restano (NN Editore, 2016), primo romanzo Jenny Offill, già uscita in Italia con Sembrava una felicità, non disattende il suo titolo.

È Grace a parlare, bambina fiorita da una famiglia allergica agli stereotipi, figlia di due insegnanti, due menti bollenti e diversissime. Un padre ragionato, accogliente, regolatore di ritmi e scadenze. E Anna, la madre, perno e demiurgo di tutta la trama.

Questo è il ritratto di una diade, dove non c’è ruolo per l’affetto ben stirato e appeso al sole. Chi si aspetta d’incassare fragranze da forno e carezze impiattate, sacrifici materni e copioni domestici, qui non troverà di che nutrirsi. È un rapporto affilato, costantemente in bilico.

Grace adora sua madre, la sua bellezza sciatta e ancora sveglia da viaggiatrice eterna. Lei che studia i volatili, che conosce gli umori dell’Africa e la sommerge di favole selvatiche. Grace costeggia il lago cercando con lei la punta di un mostro, ascolta di quando «Dio aveva chiamato il pipistrello per dargli una cesta da portare sulla Luna», resta abbagliata dalle sue scaglie radioattive. E poi la teme, in una costante funambolica tensione tra l’accudimento e l’abbandono.

Anna allestisce per la figlia una stanza di soffitti neri per spiegarle la nascita del mondo, un calendario cosmico dove l’uomo sbuca come una spina solo la notte di Capodanno e quello che resta è già compiuto. Anna la istruisce, la elettrifica d’immagini e alfabeti segreti, vuole condurla a capire, ma è incapace di capirla. Così, all’improvviso, la trascina in una fuga immotivata tingendo di rocambolesco la sua disperazione e nel nocciolo più denso del deserto non esita a lasciarla sola, quella figlia sbriciolata che sembra tutta intera e spera che Anna torni. E che infine è costretta ad alzarsi per ripescarla mentre vaga.

Per Grace sua madre è alba e tenebra, capace di ogni prodigio e di vita nottambula, è un mistero smisurato quanto l’universo e il suo cuore di bambina innamorata non è che una scatola sofferta. Un’asola annodata dove di tutta quella stranezza non s’infila neanche un artiglio.

Anna è una creatura del disagio, una madre borderline dilaniata dal suo essere sul filo. E da quel cratere dilaga una bellezza da scoppio primordiale. Il Big Bang della sua luce.

E di quel buio che la ingurgita oltre il collo. Lo stesso esatto buio che fruga nel sonno di Grace: «… il buio s’infilava nel mio letto e mi si avvolgeva intorno ai piedi, toccandomi con un suono basso, quasi un fruscio. Poi mi strisciava fino al petto e rimaneva lì, sfidandomi a respirare. Se ci provavo mi avrebbe ucciso, questo era il patto tra di noi». Un buio che fa da lenzuolo, per bendare il destino di entrambe.

Non ci sono premi di consolazione, ravvedimenti, restaurazioni del focolare. L’amore chiede il sangue e non può che ottenerlo. È una maternità scavata nell’ombra, nelle fitte più ottuse del fosso. Nella follia di una mente che detta la musica.

Jenny Offill tratteggia, con innesti di fiabe e d’incanto, un personaggio malato e magnetico, che risucchia nell’orbita ogni sua emanazione, bambina inclusa.

Le cose che restano, grazie a una delicatezza armata e spiazzante, riesce a bruciare probabilmente uno degli ultimi tabù esistenti, la roccaforte del rapporto madre-figli, che spesso si glorifica a prescindere, per biologico dovere di felicità. Ma per fortuna scrivere sconfessa. Lo hanno fatto ultimamente Merritt Tierce con Carne viva, Violaine Bérot con Le parole mai dette e anche Elizabeth Strout in Mi chiamo Lucy Barton.

Per fortuna alcuni libri inchiodano il coraggio. E si accollano il marcio del vero. Quale? Accettare che spesso salvarsi non serve, nel nostro squittire da pianeti minuscoli, che dire il male è indispensabile. E lasciarsi annegare una risposta possibile. Perché quello che resta è un infinito andarsene.

 

(Jenny Offill, Le cose che restano, trad. di Gioia Guerzoni, NN Editore, 2016, pp. 240, euro 17)
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LA CRITICA

Jenny Offill ci immerge nella spirale ombelicale del rapporto madre-figlia, con una storia affilata, estrema e piena di bellezza.

VOTO

9/10

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