[RFF11] “The Birth of a Nation” di Nate Parker
La violenza come matrice degli Stati Uniti
di Francesco Vannutelli / 16 ottobre 2016
Fino a oggi, quando al cinema si parlava di The Birth of a Nation al cinema veniva subito in mente, a ogni cinefilo che si potesse definire tale, il film di David Wark Griffith che ormai un secolo fa contribuì alla nascita del cinema moderno. Il film, in oltre tre ore di racconto, portava sullo schermo gli Stati Uniti pre e post Guerra di Secessione e ritagliava un ruolo di primo piano al Ku Ku Klux Klan come associazione necessaria per mantenere l’ordine negli stati del Sud. Il razzismo secondo il film, in una semplificazione estrema, sarebbe una delle colonne fondamentali per la sicurezza degli Stati Uniti.
Cento anni dopo, a Griffith risponde Nate Parker, attore afroamericano arrivato alla prima, molto sentita, regia. Anche lui racconta la nascita della nazione, ma da un altro punto di vista. Il suo The Birth of a Nation parte dalla storia vera di Nat Turner, schiavo nella Virginia di inizio Ottocento che guidò una rivolta di due giorni contro i padroni culminata nella morte di oltre sessanta bianchi e nel massacro indiscriminato di centinaia di schiavi di colore.
Nat Turner era uno schiavo anomalo, sapeva leggere, conosceva molto bene la Bibbia, al punto da diventare un predicatore nella sua piantagione. In un periodo di forti agitazioni dei gruppi di schiavi a causa della siccità che aveva colpito la Virginia e inasprito (ulteriormente) le condizioni di vita, Turner inizia a girare da una tenuta all’altra, insieme al suo padrone Samuel Turner, per predicare il Vangelo e calmare gli animi degli schiavi. Durante le sue predicazioni, Nat ha modo di vedere tutte le atrocità che si vivono nelle piantagioni e decide di guidare una rivolta per cercare di cambiare le cose.
Presentato al Sundance Film Festival, dove ha vinto il premio del pubblico e il Gran Premio della Giuria, The Birth of a Nation ha fatto da subito parlare molto di sé. Il titolo, una provocazione e una riappropriazione, pone la vera origine degli Stati Uniti nella violenza, la vera radice comune di sfruttati e sfruttatori. In un’epoca di enormi dibattiti razziali, violenze ingiustificate della polizia contro la popolazione afroamericana, con lo spettro di una possibile presidenza Trump, negli Stati Uniti sembra di essere tornati indietro di cinquant’anni quando si parla di diritti civili, se non addirittura di diritti umani.
La doppia vittoria dell’opera prima di Nate Parker al Sundance è sembrata arrivare apposta per sottolineare quanto sia urgente e importante non dimenticare gli orrori e gli errori che hanno segnato la nascita degli Stati Uniti.
Dopo un percorso di produzione lungo e travagliato, con Parker che si è speso in prima persona per raccogliere i dieci milioni del budget totale, The Birth of a Nation è stato acquistato per la distribuzione alla cifra considerevole di diciassette milioni e mezzo di dollari. In poco tempo sembrava essere diventato già il film favorito per gli Oscar 2017, dopo tutte le polemiche per gli “Oscar so white” degli scorsi anni.
Le cose, un po’ alla volta, sono andate in maniera diversa. La prova della sala, della grande distribuzione, ha dimostrato tutti i limiti del film che ha incassato, al botteghino nazionale, molto meno delle aspettative. Certo, le accuse di violenze sessuali contro Nate Parker degli ultimi mesi hanno dato un contributo notevole nel cambiamento dell’opinione generale intorno al film. Ma non è solamente quello.
The Birth of a Nation ha tutti i limiti che può comportare una forte ispirazione. Nate Parker credeva moltissimo nel suo progetto, e questo lo ha portato a una serie di errori che sono la debolezza del film. La rabbia e l’urgenza di raccontare le violenze razziali di due secoli fa come se fossero quelle di oggi hanno portato a una perdita di lucidità complessiva. The Birth of a Nation è un film sbilenco in cui manca un equilibrio tra la qualità della regia di Parker – sicuramente padrone del mezzo espressivo – e la struttura della narrazione.
Sembra che a Parker importasse solo mostrare la violenza per far capire l’orrore senza preoccuparsi di cercare tracce un minimo profonde per costruire i suoi personaggi. Solo Turner, interpretato dallo stesso Parker, ha una sua tridimensionalità. Tutti gli altri hanno i caratteri accennati quel tanto che basta per trovargli lo spazio minimo all’interno della storia. Anche le ragioni della rivolta partono da pretesti che non riescono a scuotere la solidarietà dello spettatore se non attraverso la violenza delle immagini. Non c’è empatia per le vittime, c’è solo disgusto per le violenze subite.
In un eccesso di immedesimazione, Parker finisce per mettersi sempre al centro della scena e a riservarsi tutti i discorsi più nobili e alti. Il risultato è un bizzarro incrocio tra Braveheart e 12 anni schiavo, senza la grandezza dei mezzi di produzione del primo e la profondità del secondo.
(The Birth of a Nation, di Nate Parker, 2016, storico, 119’)
LA CRITICA
Avrebbe avuto molti elementi per essere un grande film, The Birth of a Nation. L’eccesso di partecipazione emotiva del suo regista, però, finisce per affossarlo in una bozza riuscita solo in parte.
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