“Walls” dei Kings Of Leon
Una sfilata di cliché nell'ultimo dei Followill
di Giada Ferraglioni / 19 ottobre 2016
Correva l’anno 1970 e un giovane Greil Marcus scriveva su Rolling Stone a proposito del nuovo album di Bob Dylan, Self Protrait: «What’s this shit?». Non è l’ennesima triste e patetica polemica sul Nobel all’Everest della musica. Semmai è l’ennesima triste e patetica polemica sull’ultimo lavoro di artisti di un certo calibro.
Quattro giorni fa è uscito il settimo album dei Kings of Leon,WALLS (acronimo di “We Are Like Love Songs”), anticipato dall’uscita dei tre singoli che si presupponeva dovessero, come da tradizione discografico-economico-musicale, fornire un bignami dell’album in procinto di uscire sugli scaffali, virtuali e non. Nelle settimane precedenti al 14 ottobre sono apparsi su Spotify i pezzi “Waste a Moment”, “Reverend” e “WALLS”. Cos’altro dire se non: what’s this shit?
I Kings of Leon sono un gruppo di enorme qualità, questo è evidente almeno dal biennio 2003-2004, quando i quattro nipoti di Leòn diedero alla luce i loro primi due album d’esordio ancora meravigliosamente sporchi di terra del Sud, ma già con quella consapevolezza di far musica in un secolo diverso da quello dell’età d’oro di Nashville e Memphis. L’ultimo album non è all’altezza di niente di tutto questo, e non solo per il servizio fotografico discutibile che ha accompagnato la propaganda promozionale sui social. Con WALLS i Kings of Leon ci mostrano nient’altro se non cosa vuol dire essere mainstream al di fuori di una cornice pop (o almeno dichiaratamente pop): schitarrate e ritornelli da stadio – riempiti da chi il rock proprio non lo capisce, ma bisognerà pure andare a vedere qualche band dal vivo – alternati a pezzi acustici di un certo gusto melodico perfetti per il momento accendini.
Sia chiaro, non che i Kings of Leon si siano sempre tenuti lontani dal richiamo innico: basti pensare al sicuramente meglio riuscito Only By The Night del 2008, che accoglieva pezzi come “Sex on Fire”, “Use Somebody” e “Be Somebody”. In quel disco però (composto ormai quasi dieci anni fa) i Followill erano riusciti ad incendiare con criterio l’energia sofisticata dei due album precedenti (i favolosi Because of the Times e Aha Shake Heartbreak). Il risultato, tutt’altro che deludente, aveva fatto sì che potessimo tutti esserne quantomeno divertiti ed elettrizzati, tenendo ben a mente l’indole dei Kings of Leon e la loro capacità di integrare lo spirito “post” di un rock ultracontemporaneo con il rimando alle radici del Tennessee – coscienza che li aveva portati da un tanto splendido quanto ruvido Youth and Young Manhood (con le sue “Happy Alone”, “Joe’s Head” e “Genius”) alla fioritura (come da copertina) in Aha Shake Heartbreak, e alla consacrazione nel panorama indie/alternative con Because of the Times (“Knocked up”, “Ragoo” e l’inarrivabile “Ariziona” di chiusura), dove i Kings of Leon sembravano aver capito definitivamente l’intima sovranità del basso sulla chitarra, senza dimenticare a casa nessuno strumento del rock.
Lo scenario che apre WALLS è anni luce da tutto questo. WALLS attinge dall’acquasantiera dell’indie-pop e ne esce nella sua versione più abusata. Con “Waste a Moment” piazzata subito a inizio disco, la band sembra ben convinta a confessare con le mani in alto. Non c’è che dire, dopo due o tre ascolti ci si ritrova facilmente in cucina a canticchiare «woha-hooo / take your time to waste a moment», come una hit qualunque, senza fare o dover fare troppa attenzione alla struttura musicale (piuttosto standardizzata e appiattita, appunto, su cose già sentite e risentite).
Per trovare qualcosa di buono nel nulla assoluto bisogna scendere ancora di altre cinque tracce, dove un’interessante “Muchacho” – nonostante il titolo – salva l’album dal lancio nel tritarifiuti, con i suoi vaghi rimandi ad una ipotetica versione semplificata di “Eldorado” di Neil Young. “WALLS” in chiusura è, se non superiore, almeno diversa dall’andamento musicale del disco; eppure non stupisce trovarla lì alla fine a sfumare la banalità dell’intero lavoro nello spicciolo sentimentalismo.
Insomma, la versione da H&M dei southern boys ha lasciato con l’amaro in bocca chiunque si aspettasse quantomeno una ripresa da Come Around Sundown – per quanto non fosse un album totalmente da dimenticare – apparsa in parte nel 2013 con Mechanical Bull. Sarà per questo che la gran parte della critica non ha fatto che tacere durante tutta la prima settimana dall’uscita del disco?
LA CRITICA
Al giorno d’oggi, un brutto album di una grande band rock ha sempre lo stesso orientamento musicale: un abusatissimo indie-pop senza prospettive che cavalca le atmosfere da arena. Peccato per l’ennesimo disco nel mucchio, e peccato che sia proprio dei Kings of Leon.
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