“Until the Hunter” di Hope Sandoval and The Warm Inventions
Quando il blues chiama, il dream risponde
di Giada Ferraglioni / 30 novembre 2016
Trovarsi tra le mani Until The Hunter, il nuovo lavoro di Hope Sandoval and The Warm Inventions, vuol dire fare i conti con una serie di dualismi d’epoca e problematiche da millennials. Chitarra acustica o sintetizzatori? Urban o rural? Raccontare o creare? E se creare, cosa c’è da tirar su? Rimodellare come?
La Sandoval (Mazzy Star), insieme a Colm Ó Cíosóig (My Boody Valentine), ha tentato di rispondere, nel bene o nel male, all’esistenzialismo artistico contemporaneo: Until the Hunter è un album tendenzialmente alternative, con chiari rimandi al blues e al folk in qualche traccia, il tutto lasciato scorrere nel fiume del dream pop. Non è il primo tentativo di districarsi con creatività tra le materie prime (e pure), né in assoluto, né sul genere – il mix tra elementi acustici alla West Coast e innovazioni visionarie alla East è stato, e continua ad essere, lo spirito del 90% degli album statunitensi che aspirino a definirsi, quantomeno, musicalmente ricercati (tra i più affini sicuramente i Beach House). Allo stesso tempo, però, pochi singoli quest’anno sono stati all’altezza di “Let Me Get There”, brano composto in collaborazione con Kurt Vile, uno degli artisti migliori in attività per quanto riguarda la scena indie/alternative americana – quella del rock fedele alle contaminazioni tradizionali del country-blues. Rientrato da un tour low profile in giro per il mondo con i suoi The Violators (anche in Italia, a luglio, come spalla degli Wilco a Ferrara), Vile con il suo solito tocco (elettrico), che già lo scorso anno aveva fatto respirare i tenaci appassionati del genere con b’lieve I’m goin down… , ha contribuito a colorare la silenziosa anima rock dell’album.
Bisogna dirlo: Until the Hunter non è affatto un album di musica tradizionale ripresa, ammorbidita e resa semplicisticamente fruibile da un pubblico nostalgico ma disabituato a certi suoni. È una di quelle cose che potrebbe essere inserita senza nessun problema nella scia “post” della nostra era, uno dei tentativi reali di inventarsi qualcosa quando non c’è più niente di nuovo da dire. Ritrattare quello che c’era per tirare, artisticamente, a campare. Dunque perché non inserire una chitarre elettrica che si comporti esattamente come si comporterebbe in un universo rock, a volte psichedelico (“Salt of the Sea”, “Treasure”) a volte, appunto, country o blues (“Let Me Get There”), e perché non inserirla in un album – e addirittura in canzoni – che di rock non hanno assolutamente nulla?
Il risultato è ben armonizzato in ogni frazione, ciascuna traccia ha una sua precisa dimensione di riferimento. Tutti gli strumenti lavorano coesi nelle varie canzoni, che singolarmente funzionano piuttosto bene. Un lavoro pensato, costruito. Ma costruito come? L’estrema attenzione alle tracce in sé e non ai loro connettivi, la totale assenza di una visione olistica, fa sembrare l’album stranamente incoerente e privo di qualsiasi organizzazione dei brani – basti pensare all’estemporanea traccia d’apertura “Into the Trees”, che con la sua distensione a lamento non sembra aver nulla a che spartire con le altre 10 tracce.
Forse parlare di incoerenza non è corretto: incollocabilità, piuttosto. Ed è forse questa, in definitiva, la risposta innovativa della cantautrice statunitense, travestita però da enorme pecca. Per ora un quesito rimane aperto: se stiamo parlando di qualcosa, di che cosa stiamo parlando?
(Until the Hunter, di Hope Sandoval and The Warm Inventions, Alternative Rock, 58’56”)
LA CRITICA
Per quanto l’espediente dream pop come chiave di lettura alternativa convinca sempre in misura molto limitata, la presenza di alcuni brani notevoli rende l’album a tratti degno di lodi – ma non di lode.
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