“La vegetariana” di Han Kang
Il romanzo vincitore dell’International Man Booker Prize 2016
di Cristiana Saporito / 19 dicembre 2016
Un nome asiatico, l’infraintendibile grafica Adelphi, una foto di petali bianchi con al centro due accenni di sangue. Un fiore schiuso al dolore possibile, così labile e già violato. E poi prevedibilmente il titolo, che allude a se stesso e si trascende. Si presenta in questo modo, con una deflorante immagine di Araki, La vegetariana (Adelphi, 2016), primo romanzo tradotto in Italia della scrittrice e poetessa sudcoreana Han Kang, vincitrice dell’International Man Booker Prize. Una storia che, appunto, sboccia in copertina per impollinarsi altrove.
Protagonista è la giovane Yeong-hye, una donna almeno inizialmente intrisa d’ordinario, senza guizzi né fondali, praticamente inappuntabile per un liscio incasellamento familiare. «La personalità passiva di quella donna in cui non intravedevo né freschezza né fascino, e nemmeno una particolare raffinatezza, faceva perfettamente al caso mio». Così la incornicia il marito.
Tutto sarebbe destinato all’ovvietà, immolato senza intoppi alla quiete rituale di una coppia manualistica. Soprattutto in Corea. Lui che lavora e trova pronto. Lei che cucina e non si oppone. Peccato che esistano i sogni a sparecchiare la tavola. E Yeong-hye si sveglia diversa, dopo una notte unta di carne, che rampolla come un fiotto dalle labbra, che si appende ai vestiti, che perseguita i suoi passi di foresta. «Mi sono ficcata in bocca quella massa cruda e rossa, l’ho sentita premere contro le gengive e il palato». Il suo consumo si fa delittuoso, si tinge di un orrido che la costringe alla rinuncia.
Yeong-hye sfolla il frigo da tutte le tracce di selvaggina e rivoluziona i suoi pasti, mentre il marito la guarda sgomento, impotente davanti a quella nuova creatura che mangia riso e aria, sempre più magra, sempre più assente. È sua la voce narrante di questa prima parte, il maschile egoismo appollaiato sul copione quotidiano, che lascia accadere l’oltraggio, che permette al suocero di torturare sua figlia, schiacciandole sui denti dei bocconi morti. E quindi mortali.
Ma Yeong- hye non è solo questo. L’inquietudine fuori programma che scompone la stasi di un matrimonio. La sua carne, quel costume di muscoli e ossa così blando per chi l’ha sposata, per qualcun altro è fonte di appetito, ansia di possesso. Suo cognato, il secondo punto di osservazione della vicenda raccontato stavolta in terza persona, desidera quelle viscere dentro le sue. La macchia mongolica della donna, la schiena marchiata, sono al centro di un’ossessione erotico-artistica: «A paragone di sua moglie la si sarebbe potuta definire brutta, ma per lui irradiava energia, come un albero cresciuto nel deserto, spoglio e solitario».
È talmente pressante il suo istinto da galvanizzarne l’ispirazione. Yeong-hye viene coinvolta in un progetto creativo estremo, una performance di video-arte. Il suo corpo dipinto di fiori dorati assieme a un altro con cui mimare un amplesso. Lei non reagisce, smette i suoi anonimi panni e si lascia decorare. Perché è quello che vuole. Perché il vortice è già partito e quella vita che ha scelto di farsi vegetariana non saprà arrestarsi a questo traguardo. La meta finale è oltre lo stomaco, oltre i cordoni che inghiottono.
Yeong-hye vuole elevarsi dalla sua fame. Vuole farsi vegetale. Quella linfa che il cognato scorge in lei è il sintomo di un abbandono del regno animale. Quell’essere è già altrove, è capovolto verso il cielo, con braccia di radici e un esilissimo fusto in cerca di luce. Ed è In-hye, sua sorella, a raccoglierne il canto finale, l’atto di congedo, irremovibile e folle, dal mondo di uomini e doveri e pelle e ingestioni che non fa più per lei.
La vegetariana si chiude con la sua prospettiva, quella di una donna attiva e impeccabile. «Come figlia, come sorella maggiore, come moglie, come madre, come proprietaria di negozio, perfino come passeggera in metropolitana nel più breve dei tragitti, aveva sempre fatto del suo meglio. Grazie alla pura inerzia di un’esistenza vissuta a quel modo sarebbe stata capace di avere la meglio su qualsiasi cosa, persino sul tempo». Ma In-hye è anche lei spettatrice imbelle.
Del tradimento del marito con sua sorella, della voragine erosiva che mastica Yeong-hye fino a lasciarne molliche, fino a indurla a capire che non è solo pazzia quella che avvampa il rimasuglio del suo involucro. Yeong-hye le sta solo chiedendo di essere più libera. Di appartenere al vento. Un richiamo primordiale che anche lei non vuole più combattere.
Con una lingua elegante, signora e padrona di ogni atmosfera, duttile e sapiente nel virare verso ogni punto di vista, Han Kang disegna una spirale a cui è difficile sottrarsi. L’attraversamento della soglia, per chiunque, può passare per un giorno tra gli altri, abbracciare il salto senza rete di conforto. E senza odore di ritorno.
(Han Kang, La vegetariana, trad. di Milena Zemira Ciccimarra, Adelphi, 2016, pp. 177, euro 18)
LA CRITICA
La svolta inaspettata di un’esistenza anonima, il turbine in cui una scelta alimentare diventa una condanna e poi una strada estrema, Han Kang, con raffinatezza rara e penetrante, racconta la perdita del limite di una donna ordinaria e tutte le sue fatali conseguenze.
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