“Terminus Radioso” di Antoine Volodine
Post-esotismo post-atomico e post-sovietico
di Carlotta Colarieti / 21 dicembre 2016
Per poterne parlare, è necessario premettere che Terminus Radioso di Antoine Volodine (66thand2nd, 2016) è uno di quei libri ai quali è impossibile rimanere indifferenti:
1) Lo si ama.
2) Lo si odia.
Senza possibilità di scarto tra l’una o l’altra opzione.
Fondatore del “post-esotismo”, Antoine Volodine (uno dei tanti eteronimi usati dall’autore) immagina il crollo di una Seconda Unione Sovietica devastata dal disastro nucleare, e un kolchoz radioattivo – Terminus radioso – in cui la vita è scandita attorno all’appetito di una pila atomica profondissima che collega il kolchoz alle viscere della terra. L’innesco della storia è rappresentato dalla fuga di tre soldati, i quali, per scampare all’avanzata delle truppe capitaliste, decidono di addentrarsi nella steppa sconfinata, nella taiga e nella foresta, nello spazio di morte riconquistato dalla natura sotto le sembianze di piante mutanti e desolazione. Proprio il luogo dove sorge Terminus radioso.
La distopia-provocazione di Volodine non si limita a inscenare l’estinzione scegliendo di ispirarsi alle suggestioni dell’Unione Sovietica, simbolo chiarissimo di un sistema di valori sconfitto e sorpassato dalla Storia. Questa scelta infatti, lascia intuire l’intenzione dell’autore di concentrarsi su tutto ciò che viene dopo: dopo la guerra, dopo il crollo delle sovrastrutture politiche, dopo l’esplosione, dopo la caduta degli ideali, dopo la vita.
Nelle 500 e più pagine di Terminus radioso, nelle quali si addensa il materiale narrativo più disparato, si ha la sensazione che in fondo il punto sia sempre lo stesso: la solitudine dell’Uomo dopo tutte queste cose, o, meglio ancora, al di là di tutte queste cose.
I personaggi di Terminus Radioso compiono grandi viaggi – fisici, mentali e temporali – che sono il modo che hanno per affermare la propria identità dopo che ogni certezza è venuta meno. Vagano tra la natura e nei ricordi perché il loro stesso essere vivi passa da quelle azioni. Sono alla ricerca di un senso ma gli strumenti che hanno a disposizione per maturarlo sono scomparsi, e per questo il passato e la sfera del ricordo, in questo libro, si mescolano alla realtà, creando un tempo nuovo, dalle coordinate sconosciute.
La narrazione alterna percorsi ritmici diversi, talvolta opposti, il monologo ha il sopravvento sul dialogo, il ricordo e la meta-narrazione (quella ridondante e confusa di Soloviei, per esempio) si succedono ai diversi punti di vista che finiscono a volte per mescolarsi mimeticamente, e al lirismo, che ha qualcosa di inedito e sa farsi largo tra i nomi impossibili della vegetazione – «Lanacagne, doroglosse, lovushche del ciabattino, solivine del teppista, solivine odorose» – anch’essa post-atomica.
Il romanzo procede attraverso le «istantanee romanzesche», i narrat di cui Volodine stesso è l’inventore: «cortocircuiti» narrativi o occasioni dall’impianto meticcio sempre a cavallo tra il ricordo e la realtà del presente. Nonostante tutti questi aspetti però, Terminus Radioso sembra comunque costruito per mettere da parte l’elitarismo narrativo, procedendo attraverso una prosa che è in grado di modulare gli eccessi della trama e di accompagnare chi legge nella traiettoria bislacca disegnata dai suoi personaggi. La progressione dei ritmi e degli stili ricorda il susseguirsi di allegro e di adagio che si ha in musica classica, quando il pezzo finale ci pare composto da molti pezzi diversi, che ascoltati singolarmente, non avrebbero nulla a che fare tra loro. Una sinfonia di cui può godere anche chi non sa leggere la musica o chi non conosce le idee di colui che l’ha composta. Per questo, sia che si condivida la fortissima vocazione teorica sulla quale Volodine costruisce i propri romanzi, sia che si rimanga scettici di fronte ai suoi dogmi, in ogni caso, non si può rimanere impassibili di fronte al post-esotismo come fenomeno, per lo meno per la sua rarità nel panorama editoriale al quale siamo abituati, con la volontà dell’autore di sottrarsi alle logiche della narrazione convenzionale e a quell’ altro post, il (post) moderno, nel quale tanti contemporanei si trovano ancora impantanati.
Antoine Volodine ci dimostra che è possibile costruire forme nuove decostruendo, ripartire da un grado zero che, secondo la sua visione, è prima di tutto distruzione del nostro passato storico, immaginifico e narrativo.
(Antoine Volodine, Terminus radioso, trad. di Anna D’Elia, 66thand2nd, 2016, pp. 544, euro 20)
LA CRITICA
Uno dei libri-manifesto del post-esotismo, al quale non si può rimanere indifferenti. Una delle uscite più interessanti di questo 2016.
Comments