“Moonlight” di Barry Jenkins
Oscar per il miglior film 2017?
di Francesco Vannutelli / 7 febbraio 2017
A questo punto manca solo l’Oscar. Moonlight, il secondo film di Barry Jenkins è il film ad aver ottenuto il maggior numero di premi nel corso della cosiddetta award season 2016-2017. Sono centocinque – 105 – infatti i riconoscimenti complessivi raccolti da questo romanzo di formazione nella Miami povera e nera, che vanno dai premi più “indie” al Golden Globe per il miglior film drammatico. E con otto nomination agli Oscar, tra cui miglior film, regia e sceneggiatura non originale, è il grande favorito dietro La La Land di Damien Chazelle.
Che fosse un film destinato a far parlare di sé era chiaro già dalle prime presentazioni in giro per i festival di tutto il mondo. Ovunque sia andato – Telluride, Toronto, New York, prima di essere scelto come film d’apertura per la passata edizione della Festa del Cinema di Roma –, Moonlight è stato acclamato più o meno all’unanimità come capolavoro. Ecco, più o meno.
Perché c’è qualcosa nella storia di crescita del giovane Chiron che non funziona fino in fondo. Diviso in tre capitoli, ognuno che segue un breve periodo della vita del protagonista – infanzia, adolescenza, inizio dell’età adulta –, Moonlight racconta la vita difficile di un ragazzo solo nella periferia degradata di Miami. Perseguitato dai bulli, incapace di difendersi e con una madre tossica, il piccolo Chiron, chiamato da tutti “Little”, trova un’inattesa guida in Juan, uno spacciatore arrivato da Cuba che lo prende sotto la sua protezione offrendogli consigli e riparo. Crescendo, Chiron continua a essere perseguitato e solo. L’unico legame che ha, dopo la morte di Juan, è con l’amico di sempre Kevin, a cui forse lo unisce un rapporto più profondo di quello che i due ragazzi vogliono ammettere. È quando ormai è diventato un giovane uomo, pieno di gioielli, di muscoli e di soldi guadagnati vendendo droga ad Atlanta, che Chiron sente ancora una volta forte il richiamo di Kevin e il bisogno di capire, una volta per tutte, chi è veramente.
Barry Jenkins è partito da un breve testo teatrale di Tarell Alvin McCraney, In Moonlight Black Boys Look Blue (è una cosa che viene detta anche nel film) per la sue opera seconda a otto anni di distanza dall’esordio Medicine for Melancholy. Il modello è sempre Richard Linklater. All’esordio – la storia di una coppia di ragazzi di San Francisco che si conoscono e si frequentano per un giorno – più vicino alla trilogia del “Before” – Before Sunrise, Before Sunset, Before Midnight –, con Moonlight Jenkins guarda soprattutto a Boyhood nel tentativo di raccontare una vita attraverso i momenti.
Il merito principale del trentottenne nato e cresciuto, come il suo protagonista, a Liberty City, Miami, è nella capacità di mostrare il mondo interiore di Chiron attraverso il silenzio e quello che non si vede. Il racconto di formazione, che è anche scoperta della sessualità, passa molto più per il volto dei tre diversi attori che interpretano Chiron (sono Alex Hibbert, Ashton Sanders e Trevante Rhodes), nel loro sguardo, nelle loro spalle, che in tutto quello che viene inquadrato. La solitudine radicale di Chiron, incapace di adattarsi a un mondo che non gli appartiene mai, in nessun momento, è la forza drammatica che alimenta le prime due parti del film. Fa una tenerezza autentica, il “Little” Chiron, sempre solo a osservare gli altri, spaventato e allo stesso tempo incuriosito, e fa rabbia l’inutile violenza della persecuzione dello Chiron adolescente. È nel rapporto speciale con Kevin che Chiron trova una sua dimensione, in ogni fase della vita. Kevin è l’unico che gli dice di alzare la testa contro i bulli, l’unico che capisce le sue richieste di aiuto in silenzio, l’unico che ha il coraggio di criticare la sua nuova vita ad Atlanta.
Moonlight è un’opera complessa, capace di descrivere una vita e allo stesso tempo uno spaccato di società senza cedere a tentazioni di psicanalisi o sociologiche. Allo stesso tempo, però, il film di Jenkins paga una certa tendenza allo scorso approfondimento, che sia dei personaggi o delle situazioni. C’è qualcosa, nella sua ricerca di realismo, che finisce per renderlo poco credibile, quasi manieristico nel suo procedere per situazioni ben definite. Sono difficili da accettare lo spacciatore dal cuore d’oro, la madre tossica, il gay represso che parla di donne tutto il tempo, il bullo cattivissimo senza un motivo apparente. Sono figure bidimensionali. Lo stesso Chiron finisce per essere un insieme di suggestioni più che un personaggio compiuto, un pugno di tessere sparse, più che un mosaico.
Molto probabilmente, viste le polemiche degli anni passati per l’assenza di varietà etnica nelle candidature all’Oscar, Moonlight si porterà a casa altri premi la notte del 26 febbraio. Mahershala Ali dovrebbe vincere come non protagonista per il suo Juan, Naomi Harris come attrice non protagonista per la madre. Visto il clima politico che si vive a Hollyhwood dopo l’elezione di Trump non ci sarebbe da stupirsi se dovesse vincere anche come miglior film.
(Moonlight, di Barry Jenkins, 2016, drammatico, 110’)
LA CRITICA
Racconto di formazione e spaccato sociale, Moonlight è il film più premiato dell’anno, probabile vincitore dell’Oscar come miglior film, nonostante una certa tendenza al manierismo e, per assurdo, alla semplificazione.
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