“Gilgi, una di noi” di Irmgard Keun
La vita stretta tra le mani
di Veronica Giuffré / 22 marzo 2017
Colonia, 1931. Mentre la Repubblica di Weimar ha i giorni contati, Gilgi – al secolo Gisela – ha ventun anni e un’intera vita davanti. «La tiene stretta nelle mani, Gilgi, la sua piccola vita», o almeno così si ripete in maniera ossessiva, nelle sue giornate che scorrono tra il lavoro di dattilografa a cui si dedica con zelo, le amicizie e le ore di ritiro nella sua mansarda, dove legge, traduce e progetta il suo avvenire.
Nella sua vita non c’è spazio per sogni astratti, ma un irrinunciabile ottimismo la porta a non stare mai ferma. Gilgi incarna quello che negli anni Trenta è l’ideale della Neue Frau, la donna che rifiuta la morale dominante ed è pronta a difendere con ostinazione la sua indipendenza. L’idea del fallimento atterrisce Gilgi e al tempo stesso la fa entrare in empatia con i fallimenti degli altri. E come un ordigno meticolosamente congegnato, la sua vita minaccia di esplodere da un momento all’altro.
A innescare la detonazione è una notizia che apprende dalla madre il giorno del suo ventunesimo compleanno: «Tu non sei nostra figlia», che la porterà a una ricerca segreta e dolorosa della donna che l’ha messa al mondo. Ma ciò che ha un effetto ancora più devastante sulla sua vita è l’incontro con Martin Bruck, un bohémien senza alcun talento particolare se non quello di «parlare con così tanti colori», da cui sboccerà un sentimento che la porterà a sentirsi spezzata in due opposti inconciliabili: «Non è certo una novità che un grande amore porti con sé dei cambiamenti. Il brutto è che si cambia solo a metà, e adesso lei è composta di due metà che non stanno affatto bene insieme, che litigano in continuazione, e nessuna delle due vuole cedere di un millimetro».
Non c’è alcun patetismo in questa storia ricca di emozioni che scorre a tutta velocità lungo il flusso dei pensieri dentro la testa di Gilgi, in cui risuonano melodie e ritmi jazz con una vivacità che trasporta fino alle pieghe amare delle ultime pagine. Ma non è solo per il suo stile che la lettura di Gilgi, una di noi merita un’attenzione particolare. La vicenda di questo libro, infatti, è interessante anche dal punto di vista editoriale: nel 1931, appena pubblicato, il romanzo vendette trentamila copie, fu adattato per il cinema e tradotto in cinque lingue. Ma la sua carica dirompente di modernità e sfrontatezza lo fece finire di lì a poco, nel 1933, tra le fiamme del Terzo Reich perché bollato come “Asphaltliteratur mit antideutscher Tendenz” (letteratura dell’asfalto con tendenze anti-tedesche).
Si salvò dal rogo in Italia, ma la prima edizione del 1934 – tradotta con il titolo Una di noi da Lina Ricotti per Mondadori, nella collana “I romanzi della Palma” – venne talmente trasfigurata dalla censura da diventare irriconoscibile e cadere nell’oblio insieme alla sua autrice. Se nel resto d’Europa Gilgi ha rivisto la luce negli anni Settanta – quando è tornato a imporsi come libro di culto – in Italia è arrivato solo oggi, nella traduzione di Annalisa Pelizzola per L’orma editore, il cui lavoro prezioso continua a regalarci voci imprescindibili della letteratura francese e tedesca.
E si può dire che possieda una qualità squisitamente letteraria lo stesso personaggio riscoperto di Irmgard Keun, che tanto appare somigliante alla protagonista di questo romanzo. Come Gilgi, l’autrice è cresciuta nella città di Colonia e negli anni Venti lavora come dattilografa e frequenta una scuola di recitazione. Incoraggiata da Alfred Döbin a dedicarsi alla scrittura, ha ventisei anni quando irrompe nella scena editoriale con questo libro, seguito nel 1932 da un altro romanzo di grande successo: La ragazza di seta artificiale.
Ma il Reich sta per essere fondato per la terza volta e la Germania smetterà di essere un paese per donne sicure di sé, coraggiose, seducenti e disposte a difendere la propria libertà sopra ogni cosa. E così i due romanzi costano all’autrice dapprima l’arresto, e poi, nel 1936, l’esilio. Nello stesso anno, Irmgard Keun conosce Joseph Roth a Ostenda, mentre sono entrambi ospiti di Stefan Zweig, e tra loro sboccia un amore travolgente. Irmgard e Joseph lavorano insieme e girano l’Europa per due anni, ma la Storia divide le loro strade. Quando le armate di Hitler invadono il Belgio, la Keun inscena il proprio suicidio per rientrare sotto falso nome in Germania, dove riesce a sopravvivere nascosta fino al 1945. Non è altrettanto fortunato Roth, il quale morirà nel 1939, ormai distrutto dai suoi problemi con l’alcol.
Ancora come Gilgi, Irmgard si ritrova a essere una madre sola: nel 1951 dà alla luce Martina, di cui non rivelerà mai la paternità. Continua a scrivere, ma i suoi libri restano del tutto ignorati. Finisce alcolista – ironia della sorte, come Roth – e ricoverata in una clinica psichiatrica per sei anni. Ma riesce a uscirne appena in tempo per godersi la riscoperta delle sue opere, prima di spegnersi nel 1982 per un cancro ai polmoni.
Come quella del suo alter ego letterario, la vita di Irmgard Keun appare mossa da un’appassionata ricerca della felicità, dalla difesa della sua libertà di esistere e di essere donna, che si svolge con un tono lirico e al tempo stesso scanzonato. È una lotta che non ammette sconti, per cui si è disposti persino a lasciar andare la persona che si ama pur di rimanere fedeli a ciò che si è, perché, per quanto ci si sforzi di fare il contrario, «non si può mentire a lungo di fronte ai propri desideri».
(Irmgard Keun, Gilgi, una di noi, trad. di Annalisa Pelizzola, L’orma editore, 2016, pp. 240, euro 16)
LA CRITICA
La riscoperta di una voce straordinaria del Novecento tedesco, in una storia in grado di commuovere, divertire e farci ondeggiare a ritmo di jazz.
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