Reportage dalla Calabria

di / 6 aprile 2017

Limbadi si muoveva così lentamente che sembrava galleggiare. Nel calore africano del dieci di luglio, cani, vecchi, bambini e passeri fluttuavano sotto l’ombra inconsistente degli aceri. Per le strade lucide di pianura, tra i vigneti alle falde del monte Poro, c’era un silenzio languido e abbacinante. A pochi giorni di distanza, forse per via della temperatura, il sangue di san Pantaleone si sarebbe liquefatto nella sua piccola ampolla di vetro, al sacrario della chiesa principale del paese, dissolvendosi in quel rosso vivo sempre identico dal 306 dopo Cristo. Mi sembrava la cosa più naturale del mondo.
Tutto si scioglieva, d’estate, a Limbadi. Il gelato alla fragola con cui avevo deciso di fare colazione in piazza, la suola dei sandali di gomma a contatto con l’asfalto rovente, il trucco del viso, i capelli raccolti. Ed erano soltanto le dieci di mattina.
Ero venuta sola, prendendo in prestito la vecchia Panda azzurra della mia amica Lucilla, con lo specchietto retrovisore rotto e senza aria condizionata. Era un viaggio folle, in un luogo perduto dentro se stesso e nei recessi della mia memoria. Ma sentivo che dovevo farlo. E dovevo farlo ora che ne avevo l’occasione.
M’inerpicai a fatica sulla collina del borgo medievale di Motta Filocastro, minuscola frazione cristallizzata nel suo mosaico di palazzi abbandonati, mura di pietrisco e balconate ferruginose, fino alla porta di mia madre. Stava finendo di annaffiare il rampicante che abbelliva la facciata avorio del suo villino, da sempre simile, per qualche misteriosa ragione, a quella di una piccola chiesa. Quando mi vide arrivare, aggrottò la fronte inarcando le sopracciglia quasi bianche e si coprì con la mano destra la bocca storta sull’orlo del pianto. Rimasi impassibile.
«Volevo farti una sorpresa», dissi.
Si avvicinò lentamente, con la pompa verde in mano a bagnarle i piedi gonfi nelle ciabatte di plastica.
«Be’», disse, «anche stavolta ci sei riuscita».

Non c’era un filo di vento tra le piante che abbellivano la terrazza, allineate sulla balaustra nei vasi sbreccati di terracotta dipinta a mano che ricalcavano a colori dei motivi vegetali antichi e stilizzati. Mia madre aveva sempre amato quei vasi, come se il loro contenuto vegetale avesse qualcosa di umano. Prendemmo il caffè all’aperto, quasi senza parlare, come quando ero piccola e bastava l’aria di casa a riempire gli spazi vuoti fra le persone.
Era passato molto tempo dall’ultima volta, ma non era bastato a dividermi del tutto da quel posto. I vecchi annaffiatoi, le maioliche e le grandi giare portafiori rappresentavano l’unico limite invalicabile di quel piccolo mondo. Fuori era tutta un’altra storia, certo. Ero partita a diciassette anni, subito dopo il diploma, mezza vita fa, e Roma mi aveva inghiottita, come fa con tutti quelli che hanno qualche talento, per non risputarmi fuori mai più. Ma in quel momento ero lì. E volevo godermelo fino in fondo.
Guardai di nuovo le piante sulla balaustra, così colorate da sembrare quasi artificiali, e pensai di avere qualcosa in comune con loro. Ero anch’io un fiore da vaso, ma cresciuto in mezzo a una selva. Lo ero da sempre, senza saperne il motivo. Ero nata con le mie radici brevi e la mia terra portatile, diversa da quella in cui vivono ben piantati gli autoctoni – forse per questo non avevo mai imparato l’accento, il dialetto, a pensare in quel modo spiccio e saggiamente prosaico.
Era una terra che avevo studiato a lungo, forzatamente, per adattarmi, ma da un punto di vista esterno, impedendomi di conoscerla a fondo. Una terra strana da cui si sollevano creste verdi d’orgoglio, chiome lussureggianti di supponenza. Nulla in comune con il terriccio filtrato da cui sporge un testardo e distratto fiore da vaso. Un fiore circondato. Come la gente inerme che da queste parti muore di mafia, di cui continuavo a parlare nei miei regolari, e forse inutili, reportage dalla Calabria per il programma d’inchieste a cui lavoravo. Scendevo apposta da Roma solo per scriverli e montarli.
«Devi essere lì ogni volta che qualcuno muore», mi ripeteva il mio direttore con cinica puntualità.
Anche se nell’era delle ecomafie, delle infiltrazioni e della corruzione sfrenata le morti erano meno frequenti e per scrivere di criminalità organizzata avrei potuto tranquillamente restarmene a Roma, avevo continuato a scendere in Calabria per vedere la morte in faccia. La Calabria, già, la strana terra. Con il lavoro va così: finisco sempre per occuparmi di cose che apparentemente non mi riguardano. Lo faccio per curiosità, per esplorare qualcosa che mi appassiona proprio perché è altro da me. Forse quell’incarico l’avevo preso a cuore perché all’inizio credevo che rimanere in Calabria fosse una presa di posizione, anche coraggiosa, e non un fatto naturale. Col tempo, invece, avevo capito che la gente che muore, di solito, si ostina a viverci proprio come se niente fosse. Per questo fanno rabbia a qualcuno. Per questo li levano di mezzo.
Anch’io, da sempre, facevo rabbia al prossimo. Troppo distante, incomprensibile. Anche a Roma, nella redazione del programma, ero un fiore da vaso in una selva, e lo sarei stata ugualmente se fossi nata in Liguria o in Lombardia.
Era stata mia madre, quella donnina minuta in ciabatte di plastica, a volermi una cittadina del mondo: idealista e ingenua al punto da non capire lo spirito d’appartenenza necessario a fare il tifo per una squadra di calcio. Amavo comunque la Calabria, ma senza viscere né pianti, senza la disperazione folclorica del posto. Come se tutto andasse bene e fosse normale. Come se non la conoscessi. In ogni caso, ero contenta del mio status. Lo ero sempre stata. Non sarei mai riuscita a immaginare la mia vita in un altro modo, al di là del limite, radicata in un luogo che non fosse a mezz’aria, in quella che altri chiamerebbero normalità.
Eppure quel giorno, osservando la domestica cattività di quei vasi, provavo una gran voglia di scoppiare a piangere. Era davvero quello il prezzo da pagare per non essere toccati dal male di una terra? Nascere e crescere in serra, nel chiuso di un bellissimo terrazzo?
Seduta al grande tavolo d’abete della cucina, incrociai le braccia e presi quella solita aria scomposta e perduta, da pensatrice bambina. Davanti a me, oltre il vano della balconata, si stagliava la piana di Gioia Tauro, poi le Serre, l’Aspromonte, e ancora oltre lo stretto di Messina, l’Etna e lo Stromboli con le loro barbe di fumo bianco, come se ogni sera, di là dal mare, si eleggesse un pontefice.
Che bellezza, che dolore.
Provavo un dolore sincero, per la prima volta nella vita. I miei occhi erano tazze di luce, gli alberi e le viole erano diventati un fatto personale. Mi venne voglia di spogliarmi e fuggire verso il mare. Il sole caldo e immenso mi sembrava una ragione sufficiente. Avevo il cuore squarciato da una strana sensazione, come se una mano invisibile mi stesse sparando dentro con un trapano da saldatore. Cercai di distrarmi e posare lo sguardo altrove.
Mentre tentavo di capire, fra una tazza di caffè e l’altra, mia madre mi chiese: «Che c’è?»
Era tanto tempo che nessuno me lo chiedeva con quella semplicità disarmante che si usa in famiglia. Precisamente da quando non ho più una famiglia che viva con me.
«Niente, stavo pensando all’avocado», dissi indicando il piatto pieno di fette burrose che avevo davanti. Aveva appena detto che era insipido.
Afferrò una bottiglia dalla credenza e mi offrì un bicchiere di vino. Bevetti un sorso e il mio trapano interiore smise di scavare.
«È un vino da meditazione», disse. «Me l’ha consigliato un amico che lo produce. Dici che funziona?»
Annuii, ma forse il mio viso parlava da sé. Provai un senso di beatitudine. Poteva leggerlo pure lei, anche se da tempo condivideva con me solo distese frequentazioni occasionali. Fui tentata di chiederle dove poterne acquistare una bottiglia da portare a Roma – avrei potuto invitare Lucilla a berne un bicchiere in giardino, anche se tra fiori di serra, polvere e lettiere per gatti – ma non lo feci. Magari la prossima volta, pensai, quando troverò il coraggio di tornare.
«Perché sei tornata?», chiese sciacquando i bicchieri e le tazze bianche sotto l’acqua corrente.
«Per lavoro».
«Vai via subito?»
«Resto dieci giorni».
«Ma Aldo lo sa?»
«Non ne abbiamo parlato».
«C’è qualcun altro?»
Non trattenni un sorriso. In meno di mezz’ora aveva già capito che c’era un’altra storia finita. Frugare i segreti degli altri come un cane da tartufo era il suo passatempo preferito.
«Solo Dio, per ora», dissi osservando le sue mani screpolate dal detersivo.
«Questa è una buona notizia», rispose ridendo.
«Se lo dici tu».
Per interrompere ogni possibile sviluppo di quell’indagine, mi alzai a girovagare per le stanze. La casa era esattamente come la ricordavo, a partire dall’odore legnoso e speziato di fiori secchi nell’androne che rimandava a ricordi vaghi di un’intimità perduta. Nemmeno il resto era cambiato. La sequenza dei quadri lungo il corridoio, la disposizione dei soprammobili in cucina. A mia madre non piaceva cambiare. Soprattutto dagli ultimi tre anni, da quando le mie visite erano diventate sporadiche e segnate in maniera macabra da quelle morti. Forse lo faceva per aiutarmi a ricordare. A ogni reportage, ogni nuova morte, ogni mio maledetto possibile ritorno. Ma anche la morte ha a che fare con la terra, con questa terra. Con tutto ciò che sta al di là del limite, con le viscere di tutti, con ciò che la gente calpesta ogni giorno e che si macera, si disperde. Dunque, pensai, in fondo forse non mi riguarda. O forse sì?
Stavo per andarmene, recuperando la borsa appesa allo schienale della sedia, quando mia madre mi regalò la bottiglia. Scossi la testa.
«Ne compro un’altra da portare via».
«È un vino in edizione limitata», disse, «trecento bottiglie numerate. La nostra è la duecentonovantatré».
Limiti, ci sono limiti dappertutto.

Ora la bottiglia è qui, sulla mia scrivania.
Invece di essere contenta sto pensando che il vino finirà, aggiungendosi all’elenco sterminato delle cose che finiscono. La conserverò per annusarne di tanto in tanto l’odore, se va bene.
Stamattina mia madre è scesa al supermercato romano sotto casa e io sono rimasta sola tutto il tempo accanto alla bottiglia vuota a finire l’ultimo reportage come un’idiota. Ho chiuso la giornata con un paio di decaffeinati mentre lei sistemava la spesa senza accorgersi del piacere sottile che mi provoca ora quel rumore nuovo di buste, di pacchi, di mani – le sue. Con gli occhi pieni di sonno mi sono spostata sul divano per correggere le ultime battute, accompagnata dai litigi stanchi dei vicini in sottofondo. Prima di addormentarmi mi è venuto in mente di aver sognato la notte scorsa qualcosa che aveva a che fare con la mia ultima trasferta: l’estate a Limbadi e un terrazzo delimitato da piante in vasi di ceramica antica. Era stato quasi più strano sognarlo che viverlo. Ma ora sono qui, fra polveri sedimentate e lettiere per gatti.
Ora sinceramente non ricordo, non ricordo più.

 

Giulia De Sensi (1980) nata a Lamezia Terme, vive nella sua città natale e lavora come fisioterapista in ambito neurologico. Pubblicista, da tre anni è collaboratrice esterna di redazione della testata Il Lametino. Ha precedentemente collaborato con le riviste Il Sileno, Controcampus, Mezzoeuro ed è stata blogger della pagina social “Intreno” sulle esperienze letterarie di viaggio. Uno dei suoi racconti, Il Fantasma di via Giolitti, è stato pubblicato sulla rivista letteraria Sinestesie. Nel 2016 è uscito il suo primo romanzo, “La casa sull’altopiano”, per Eretica edizioni.

Immagine di copertina: Pasquale De Sensi.

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