“Automaton” dei Jamiroquai
Il gradito ritorno della band di Jay Kay
di Luigi Ippoliti / 7 aprile 2017
Dai Jamiroquai oramai non ci si aspetta più qualcosa che possa stravolgere la musica contemporanea. Negli anni Novanta avevano creato, con l’esordio Emergency on Planet Earth e The Return of the Space Cowboy, un sound che non era jazz, che non era funk, che non era rap, che non era pop e che allo stesso tempo era tutto questo. C’era il grunge in quegli anni, poco prima erano usciti Ten dei Pearl Jam e Nevermind dei Nirvana, i R.E.M. avevano da poco sfornato quel monolite del pop che è Automatic for the People, erano gli albori del brit-pop e del duello Oasis e i Blur, i Radiohead stavano per scardinare le regole del rock, e poi c’erano loro, che oggi, a sette anni da Rock Dust Light, escono con Automaton.
Il loro penultimo lavoro non rimarrà di certo impresso nella memoria collettiva. Piuttosto scialbo, pieno di clichè e privo di quella forza che, nel bene e nel male, ha sempre caratterizzato la loro produzione, Rock Dust Light non funzionava. Aveva le sembianze di un’auto parodia riuscita male. Certo, in assoluto, è probabile che non rimarrà impresso neanche Automaton. Ma quest’ultima fatica non è un’auto parodia riuscita male. È sicuramente pieno di auto riferimenti – Funk Odissy è sempre lì a mostrare la via –, di qualcosa già ascoltato, ma è un lavoro vivo. C’è una classe nel coordinare giri di basso al falsetto di Jay Kay che i Jamiroquai non rispolveravano da inizio anni Duemila.
Non siamo ai livelli degli esordi, ma non potrebbe essere altrimenti: bisognerebbe accettare di trovarci, nel 2017, in un mondo in cui i Jamiroquai non sono mai esistiti.
È stato detto più volte che in Jay Kay c’è molto Stewie Wonder e Stewie Wonder è presente anche oggi, e non potrebbe essere diversamente. Ma è uno Stewie Wonder che si è messo a cantare per una band che ha voluto sperimentare un po’ di french-house. La novità in questo lavoro, infatti, è l’introduzione di certe componenti di quel filone musicale eterogeneo che negli ultimi quindici anni è dominato dai Daft Punk. Voci robotiche stile “Discovery” sparse qua e là. Non un azzardo a livello generale, o un rischio eccessivo – l’album comunque viaggia su binari ampiamente battuti –, ma un divertissement che fa sorridere.
“Shake it on”, brano d’apertura, ha una forza dirompente e l’unico rimpianto di non essere per pochissimo un instant classic. “Automaton” è il pezzo più smaccatamente alla Daft Punk, un’intepretazione dei Jamiroquai del duo francese. “Cloud 9” e “Superfresh” (il basso di quest’ultima è una perla) hanno lo smalto di Funk Odissy.
“Summer Girl” e “Hot Property” sono legate da un ponte invisibile e suonano come due pezzi composti da Daft punk, Gorge Michael e Prince. In “Something About You” l’animo più black di Jay Kay emerge con prepotenza in un mondo naif rimasto agli anni Ottanta. “Vitamin” sembra un pezzo scritto di nascosto insieme Flying Lotus durante la stesura di Cosmogramma. “Carla”, che chiude l’album, è il brano meno ispirato.
Automaton è quello che i Jamiroquai devono essere. Groove, easy listening e poco altro. Senza più le intuizioni geniali di un tempo, ci sono esperienza, metodo e artigianato. Ancora oggi, la band di Jay Kay può dire la sua.
(Automaton, Jamiroquai, funk/pop/french house)
LA CRITICA
I Jamiroquei tornano dopo sette anni dal deludente Rock Dust Light con Automaton, un lavoro che non esalta ma consola. I tempi di Funk Odissy sono meno lontani.
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