L’ambiguità di dire «Io sono un altro»
In "Lettera d’amore allo yeti", dalle atmosfere horror, Enrico Macioci indaga sul senso del lutto e della perdita.
di Demetrio Paolin / 12 aprile 2017
Enrico Macioci nel romanzo Lettera d’amore allo yeti (Mondadori, 2017) compie un passo nuovo e deciso nel suo percorso autoriale. Credo che con quatto libri alle spalle (un libro di racconti e tre romanzi) si possa incominciare anche a ragionare su ciò che l’autore sta provando a portare avanti con la sua scelta poetica e stilistica. Nel caso della Lettera d’amore allo yeti Macioci affronta o, meglio, s’accosta al genere horror. Lo fa, tenendo ben presente la sua personale bussola ovvero King, ma con un occhio ad altri modelli narrativi, che lui stesso nel libro dichiara ovvero L’isola del tesoro di Stevenson e Pinocchio di Collodi.
Credo, in primo luogo, sia necessario dire in breve la storia. Il romanzo di Macioci inizia con un lutto. I protagonisti, padre e figlio, debbono fare i conti con la morte improvvisa della moglie e della madre. L’uomo cerca in tutti i modi proteggere il figlio, e di fargli vivere il più serenamente possibile questa difficile esperienza. Nicola è un bambino sveglio e pieno di vita. Coltiva una passione per il soprannaturale e in particolare per lo Yeti. Durante i mesi estivi, passati in una piccola città di mare in Abruzzo, il protagonista fa amicizia con Walter il barista del chioschetto da spiaggia. Un uomo d’altri tempi appassionato di letteratura anglosassone con una predilezione per il personaggio di Long John Silver.
La vita sembra tornare a scorrere, secondo binari della consueta serenità, anche per il bambino che trova in Teodoro Inverno, un signore anziano suo vicino di casa, un amico con cui parlare dello Yeti. Il padre, che dopo una iniziale gelosia, capisce che è giusto così e lascia spazio a questo rapporto, in questo modo ritrova u po’ di tempo per sé e s’innamora di una cameriera. La comparsa nelle pagine di questa ragazza misteriosa segna l’irruzione dell’irrazionale nella storia, che fino ad allora era stato appena accennato. La giovane ha un dono, quello di prevedere una sciagura imminente, e quando le accade lei vive una sorta di attacco epilettico fortissimo. Durante una passeggiata, la ragazza ha uno di questi attacchi e così il giorno dopo, un normale giorno di vacanza estiva, è funestato da un evento tragico: la scomparsa di un’animatrice della colonia dei ragazzi. A questo punto, però, si scopre che la cittadina ha già vissuto altre sparizioni e tra le vie sonnacchiose e annoiate si nascondono più misteri di quanti inizialmente il lettore immaginava.
Mi fermo qui per lasciare al lettore il piacere di scoprire come i diversi piani e misteri disseminati nella trama trovino soluzione.
Ora cerchiamo di mettere un po’ in luce alcuni aspetti di Lettera d’amore allo yeti che mi paiono convincenti. Il primo luogo la scrittura. Macioci ha una scrittura chiara, mai sciatta o banale. I dialoghi funzionano molto bene, in particolare quelli tra il protagonista e il barista sono vividi e vivaci. Inoltre hanno veramente un sapore ottocentesco nella costruzione delle frasi, nel gusto dell’iperbole e dell’arguzia. Anche la rappresentazione del lutto e del trauma è delineato con una penna attenta. Il tema del lutto e della morte, della morte improvvisa e inspiegabile, attraversano molte pagine di Macioci sia quelle del romanzo monstre La dissoluzione familiare (Indiana) sia quelle più recenti di Breve storia del talento. Il tema luttuoso è forse quello più forte nella sua opera. Come si reagisce a una perdita, sia essa una perdita materiale – le case, e le vite distrutte dal terremoto, non dimentichiamo che Macioci ha vissuto in prima persona la grande scossa a L’Aquila –; o sia essa una perdita simbolica (il talento che viene sprecato)? Lettera d’amore allo yeti è il tentativo di scogliere questi interrogativi. L’esperienza del Male, del Male assoluto e radicale, che affonda gli artigli nella nostra vita, non può avere una risposta razionale; esiste qualcosa – che non è detto sia Dio, anzi in Macioci l’immaginario cristiano è ridotto, quasi sempre secondario e in più legato a cliché – che supera la nostra vita e ci interroga. Il soprannaturale è per Macioci il luogo in cui si decidono i destini del mondo, e questa idea – sincretica e appunto poco ortodossa – è forse il debito più grande del racconto verso l’immaginario di King. L’idea che esista la magia – si ricordi l’esergo di It – è per Macioci qualcosa di indubitabile.
Certo la presenza di King è visibile anche nello scioglimento della trama e nella scelta dell’apparente ovvietà dell’orrore, della sua veste quasi dismessa; sappiamo da King, infatti, che il male è proteiforme e può irradiarsi anche dai luoghi più dismessi e privi di qualsiasi attrattiva e particolarità.
Eppure King non è, a mio avviso, il vero genius loci di questo romanzo. Credo che il discorso del doppio legato a Stevenson e il discorso della difficile via verso l’essere adulti di Pinocchio siano i veri nuclei cogenti del romanzo.
Se infatti togliamo al testo l’impianto dell’horror, abbiamo appunto un padre che cerca di aiutare un figlio a diventare grande senza l’aiuto di una madre, ma di una figura femminile magica (Geppetto è padre senza che esista una madre, e la Fata turchina è appunto un essere soprannaturale); e un figlio che affronta una serie di prove, una serie di mostri, di figure ambigue che lo porteranno ad accettare la morte della madre e a diventare grande.
Nello stesso tempo la maggior parte dei personaggi che gravitano intorno al padre e al figlio sono doppi. Possiedono una doppia identità alcune volte palese, altre nascosta. Nessuno di loro è uno, ognuno di loro è duplice. Il tema dell’identità e del suo doppio che Macioci declina usando Stevenson è comunque un tema ottocentesco che trova la sua più alta forma, oramai da aforisma, del Rimbaud di «Io è un altro». Ecco la maggior parte dei personaggi di Lettera d’amore allo yeti vivono questa scissione, che il poeta francese aveva icasticamente descritto. Ecco questa discrasia tra ciò che appare e ciò che si è mi pare sia il vero centro del libro; quindi non tanto la storia dell’orrore alla King, quanto il tentativo riuscito di rappresentare l’ambiguità dell’essere umano.
E credo che non sia un caso che proprio il finale, narrativamente, lasci qualche perplessità, per una decisione di troppa chiarezza, l’idea di dover spiegare assolutamente tutto, mentre sarebbe stato utile un lavoro di elisione, lacuna e non detto. Come lettore ho avuto l’impressione che il romanzo avesse già avuto la sua ragione d’essere nelle pagine precedenti, quando Macioci continuava inesausto a costruire i suoi personaggi, a complicarli, a renderli via via più ambigui e misteriosi… Il finale sembra un atto di dispiacere, il dover mettere fine a una storia che si vorrebbe raccontare per sempre.
A pensarci bene è la stessa debolezza che si imputa a It, dove il finale funziona, ma non è all’altezza del resto; è il rischio che si corre a narrare una storia che pagina dopo pagina uncina il lettore. È un rischio che Macioci corre, che in parte riesce a superare e che ne fa comunque uno degli autori più interessanti nel nostro panorama letterario attuale.
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