La balena
di Marina Gellona / 20 aprile 2017
Capalbio. Caput albi. Capo bianco. O campo bianco.
A ore precise del giorno, il treno da e per Roma.
L’odore della campagna d’estate. Di finocchio selvatico. Di terra cotta dal sole. I girasoli, impiccati nell’arsura. Le chiocciole vivono su steli di paglia, in lunghe colonie, e pesano e li piegano. Alcuni gusci giacciono al suolo, intatti ma vuoti.
Agosto tutto brucia e abbaglia.
Francesca scende in giardino, socchiude gli occhi per difendersi dal bianco e sale in auto con i genitori e il fratellino Lucio. Ogni cosa che tocca, scotta e lascia qualcosa tra le mani. La terra, uno strato spesso di polvere; il legno consunto delle staccionate, mille schegge nel palmo; il muro, le dita ricoperte di calce. Oltre la linea della ferrovia, i campi si spaccano in zolle, grosse come neonati. Alberi radi, poca ombra. Le mucche usciranno dalle stalle al calar del sole. A volte, distanti dalle case, Francesca può vedere i cavalli. Da lontano, non può scorgere le mosche che li tormentano.
Là dove sono i cavalli, la spiaggia è vicina. La campagna confina con il mare. Questa terra bianca abbacinante e l’aria satura di luce insolitamente ferma (oggi non c’è vento?) spossano gli occhi. Ma poi, ancora una duna, due, tre e la terra lascia posto alla sabbia finissima, grigia, bollente.
Allora, tutto cambia.
La macchia di pitosfori profuma e divide la campagna dal mare. Non ci sono più mucche, zolle di terra, cavalli. Ora ci sono solo i gigli. Bianchi, di un chiarore dolce.
A volte crescono soli.
A volte sono due o tre, con le radici vicine, e si spartiscono la terra sotto veli di sabbia grigia. Hanno foglie carnose e ricurve, poco più spesse di un filo d’erba, verde chiarissimo.
Ce ne sono alcuni che non vedranno mai il mare, nascosti tra le dune della macchia, tra le bacche resinose dei cespugli. Altri crescono sull’ultima duna, inclinati verso le onde.
E l’ultimo giglio, da solo, cresciuto più avanti di tutti, inaugura la spiaggia.
Da qui in poi, una distesa di sabbia si allunga ampia e deserta e si assottiglia verso il profilo di coccodrillo dell’Argentario.
A Francesca forse piace questo modo in cui la campagna diventa mare, e non udire più il rumore forte del treno che arriva e riparte e spesso non si ferma.
Forse.
Non sa se le piaccia, in realtà: semplicemente riempie gli occhi e tocca tutti i suoi sensi di bambina e ogni giorno si ripete uguale, le persone e le cose in fila come perline di una collana: mamma e papà, il fratellino Lucio, i sandali ai piedi, il costume rosso, la maglietta blu, l’auto che procede piano tra la casa bianca e le dune, le conchiglie del giorno precedente nel secchiello incrostato di sabbia, Francesca.
Ma oggi dietro la loro auto ce ne sono altre due: le famiglie di amici dei genitori, con altri bambini. E la mamma e il papà sono diversi fin dal mattino, dediti agli ospiti, preoccupati di farli sentire a loro agio.
Francesca cerca il suo posto in quel ritmo scombinato: guarda con apprensione la campagna bruciata, le mucche al riparo in qualche stalla, i cavalli, le dune di sabbia grigia, i primi fiori sotto i cespugli di pitosforo.
E l’ultimo giglio bianco, quello che cresce più vicino di tutti alla spiaggia e al mare, spicca più solo.
Un po’ mosso, appena più di ieri, oggi il mare è più verde che blu.
Con ancora il bavaglino della colazione, il piccolo Lucio gioca nella sabbia. Nudo, emette i suoni incomprensibili di una lingua tutta sua. I capelli rasati, cortissimi. Il faccino pieno. Distratta dagli ospiti, la mamma non gli ha messo un cappellino. Accanto a lui, il papà ha lasciato un minuscolo canotto rosso.
Francesca si avvicina a Delia, la figlia degli amici dei suoi. Delia tiene gli occhi fissi sul suo giornalino nuovo e non lo condivide con nessuno, a settembre comincerà la terza elementare e le piace mostrare di saper leggere come un adulto. Anche Francesca, a settembre va in terza; vorrebbe dirlo alla bambina che legge, ma non lo fa.
Lì accanto c’è anche Maurizio, fratello di Delia, che già va alle medie; sta imbronciato, isolato, seduto sull’asciugamano blu stinto. Il naso scartavetrato dal sole. Le lentiggini moltiplicate. Occhi piccoli, grossi incisivi, bocca larga.
Poi c’è Carlo, che ha portato un aquilone d’argento e ora cerca il vento.
Francesca non trova il suo posto in questo giorno diverso. Per un poco cerca le conchiglie. Ma poi, si allontana, infila le mani nella borsa di paglia, sotto alla maglietta blu e tira fuori il suo peluche.
È una balena blu, con la pancia azzurra. Morbidissima.
Non potrebbe giocarci in spiaggia, ma oggi la mamma non si è accorta che Francesca l’ha portata con sé.
È piccina, la balena, per un adulto, ma per lei è grande.
Come il suo torace. Quando se la appoggia sul cuore, di sera prima di dormire, la stringe forte tra le braccia, perché le bruciature di sole sulle spalle fanno male e allora è dolce sentire morbido mentre si addormenta. Respirare, sentire morbido, respirare, respirare… Entrare nei sogni con la sua balena.
Non sentire più il treno bucare la notte.
Questa mattina, in cui nessuno controlla, Francesca ha preso la balena morbida e l’ha portata via con sé. Non avrebbe dovuto, lo sa benissimo, ma se c’è spazio per tutti gli altri, c’è spazio anche per la sua balena.
La regola è: la balena non si porta in spiaggia. Un’altra regola: non si fa il bagno prima che siano passate tre ore dalla colazione. Non si va in acqua da soli. Si indossa il costume asciutto prima di andar via. E sono solo alcune, delle tante regole della mamma.
Ma con la balena appoggiata al petto, ora si sente meglio. Francesca respira tranquilla. Si guarda intorno.
Si volta verso il mare. Mamma e papà parlano con gli altri adulti vicino agli ombrelloni.
Francesca chiacchiera sottovoce con la sua balena, le chiede cosa voglia fare, la balena dice che vuole andare a cercare le sue sorelle, è da troppo tempo lontana dal mare, Francesca le promette di accompagnarla, le dice: «Andiamo, troviamo una barca e un marinaio».
Si dirige verso suo fratello, Lucio, che ora ha molta sabbia intorno alle labbra e, sul mento, saliva non asciugata. Accanto al piccolo c’è il canotto rosso: «Ti porto sul canotto, vieni». Non è una domanda. È l’inizio dell’avventura di riportare la balena in mare. E non ci sono altre regole, non c’è spazio per divieti e norme, in questa avventura. Non c’è la regola che il canotto nel mare non si porta. E non c’è la regola che non si trascina il fratellino in acqua. Non c’è la regola che non si entra nel mare senza aver chiesto permesso a mamma.
C’è solo una balena da riportare dalle sue sorelle e un compagno di viaggio, basta tenere stretto il pezzetto di corda del canotto in una mano. Lucio muove le sue gambe cicciottelle sulla sabbia e inciampa e Francesca lo tira verso l’alto facendolo avvitare un po’ su se stesso.
«Dai, marinaio, alzati». E il bavaglino è una camicia bianca da pirata.
La balena blu saltella, già molto felice, nel canotto rosso che ballonzola sulle gobbette di sabbia.
«È ancora viva», racconta Francesca a Lucio, «vedi? È viva, ma dobbiamo fare in fretta, dobbiamo portarla nel mare, perché oggi arrivano le sue sorelle e le ritroverà dopo tanto tempo». Lucio la guarda e stringe gli occhi nel sole. Acqua sulle caviglie. Francesca lo solleva e lo fa entrare nel canotto, insieme alla balena. Gli stringe forte le manine sui manici neri: «Tieniti», gli dice. Lucio si tiene forte. Il suo viso si imbroncia. Entrano nel mare. Brividi di eccitazione e di freddo. Francesca sente di affacciarsi al mondo per la prima volta. Naviga sul mare da sola. Con il batticuore. Vento. I capelli davanti al sorriso. Si sente forte e viva, al centro del suo mondo, della sua avventura.
Il sole si moltiplica in mille pezzetti di specchio intorno a loro. Il canotto rosso s’impenna. È così minuscolo e leggero, con sopra Lucio e la balena, e si impenna a ogni onda.
Francesca si racconta la storia delle balene e visto che oggi si sente coraggiosa come mai prima d’ora, mette anche la testa sott’acqua e apre gli occhi. Bruciano di sale, ma li tiene spalancati. Fa le bolle con il fiato, buttando fuori tutta l’aria, poi riemerge. Il viso rabbuiato di Lucio, nel gioco di Francesca, è solo la faccia di un marinaio scorbutico. La corda del canotto le scivola dalle mani, ma lei la riacciuffa. E corre tra le onde. Lucio inizia a piangere. Ecco, pensa Francesca, adesso mi rovina il gioco. Il cielo si è riempito di nubi bianche, il sole è nascosto, si alza il vento: «Ecco le balene», dice ad alta voce, «guarda! Le tue sorelle!» Slanciandosi verso il mare aperto sente la corda del canotto scivolarle dalla mano. Arriva un’onda, la investe e la spinge lontano dal canotto, che prende il largo. Va più in là del respiro che Francesca sente di avere. Più in là, verso l’acqua scura, profonda, dove lei ha paura di andare. Dove non tocca. Si volta. La riva non è poi così vicina. Prende fiato. Grida forte. Il canotto con Lucio si allontana ancora.
Si girano tutti e Giulio, l’amico di papà, si butta in mare. Giulio fa dieci bracciate e arriva per primo. Prende Lucio in braccio e Francesca per mano, e in un niente è dalla mamma.
Il vento ora sposta enormi nubi pallide in cielo, mute.
Il canotto dondola, si gira e si rigira leggero, senza più il peso del bambino è un pezzo di plastica gonfio e rosso tra le onde blu. Francesca è sulla riva. Da sola. Nessuno le ha portato un asciugamano. La mamma calma Lucio che piange ancora. Il sole non riappare. Le labbra di Francesca, viola. I polpastrelli rigati di sale. Le battono i denti in un misto di freddo e angoscia.
In fondo, non è successo niente. Giulio sta recuperando il canotto, e torna a riva senza fatica. Ma negli occhi della mamma, ora, sembra essere successo tutto. Tutte le regole infrante, quelle che plasmano Francesca come la sua brava bambina. Lucio che continua a piangere. Papà che la guarda solo un istante, infinito, gelido, e scuote la testa. Delia e Maurizio la spiano da dietro il giornalino, dai margini dell’asciugamano. Lontani. Sono lì, e c’è anche Carlo, l’aquilone d’argento che si agita al suo fianco.
In quel momento lei non è più niente.
Per nessuno.
E non c’è nulla per Francesca, ora. Non un asciugamano un po’ rigido di sale ma caldo d’estate. Non la focaccia o la pizza che stanno nella carta oleata in borsa, sotto la sua maglietta blu, dove fino a poco tempo prima era nascosta la balena.
La mamma le passa vicino come una furia: «Dopo io e te facciamo i conti».
Il papà dice solo: «Io quel canotto lo faccio sparire».
Solo Giulio, l’altro papà, si inginocchia accanto a lei e con una mano le smuove i capelli e le fa l’occhiolino, come a dire: tranquilla, non è successo niente. Ma è un attimo e poi raggiunge sua figlia Delia e la prende in braccio, la fa volare, la coccola.
Francesca, siede in silenzio sulla spiaggia, prende manciate di sabbia nei pugni e li lascia cadere piano, come da una clessidra. Così, trenta, cinquanta volte, cerca sempre la sabbia dove è calda, sperando che il tepore si diffonda dalla mano al resto del corpo. E tiene una guancia appoggiata alle ginocchia, che tremano ancora. Sta ripiegata su se stessa, il freddo non se ne va, il costume bagnato lo aumenta, mentre il tempo passa tra le dita delle mani, carezze di sabbia, ipnotiche, quasi le tolgono la percezione dell’accaduto.
Il mare, però, è sempre lì. Le onde ripetono implacabili ciò che è stato, ma non le restituiscono la balena. Quella cosa che sente, quando pensa a lei, le spalanca un vuoto nello stomaco, che potrebbe scambiare per fame se non fosse così forte la nausea che le chiude la gola.
La focaccia non è buona, oggi. La mamma ristabilisce, con un bel discorso fatto di punti fermi, punti a capo, esclamativi, sottolineature e maiuscole, tutte le regole: non si fa il bagno prima delle undici, non si mette in mare il canotto da sola, non azzardarsi mai più a portare in acqua Lucio. Che poteva annegare: «Che c’è mancato niente che annegasse. Che morisse, capito?»
Capito.
«Che cosa ti è venuto in mente? Ma come ti è potuto venire in mente di prendere tuo fratello e metterlo in mare?»
Francesca non ribatte. Zitta. È troppo forte tutto. Non c’è niente che possa dire davanti a tutti quei punti interrogativi, a quegli uncini.
«Mai più. Va bene?»
Va bene.
«Scusa», riesce a dire, pianissimo.
«Sì, scusa…» sibila il papà, la sigaretta in bocca.
Non basta chiedere scusa. Non basta mai chiedere scusa.
O piegare la testa, finché il mento tocca il petto.
Francesca è di nuovo sola, seduta sulla sabbia. Quando arriva il pomeriggio? Quando potrà avvicinarsi al canotto, guardarci dentro, vedere se c’è lei. Non lo lasceranno in spiaggia vero? Ma il momento di abbandonare la spiaggia, raccogliere palette, secchielli (e canotto) è ancora lontano.
«Francesca ti trascino per fare la pista, va bene?»
Gli occhi di Maurizio la fissano prepotenti.
Se c’è qualcosa che Francesca odia è essere trascinata per tracciare la pista delle biglie. Le entra tutta la sabbia nel costume. Le pizzica tutto. A volte brucia fare pipì, la sera, e anche il giorno dopo.
Prova a fare gli occhi grandi, balbetta un non ho voglia, ma non ha forza nella voce, e gli altri bambini la guardano, si aspettano che lo faccia. Maurizio la prende per le caviglie: «Dai che faccio veloce», e inizia a trascinarla. Vuole una pista lunghissima, tortuosa. Non la guarda negli occhi. Le sue mani sono dure e stringono fortissimo come se dovessero staccarle i piedi, e lei cade di continuo di lato.
«Ma vuoi star su?» E stringe ancora più forte le dita intorno alle caviglie mentre fa l’ultima parabola. Ecco, finito.
Poi grandi secchielli avanti e indietro dal mare. Per bagnare la sabbia, batterla con forza, con le mani dure, finché non diventa compatta, liscia, veloce per le biglie. Francesca batte sulla sabbia senza convinzione, un grumo di pianto in gola. Maurizio e Carlo sono rapidi, precisi, le mani come palette, la pista è presto pronta. Un serpente, sinuoso, mimetizzato tra le ombre della sabbia.
Ne ha molta nel costume, Francesca.
Giocare a biglie è un’altra cosa che detesta. Continuamente la sua biglia va fuori pista. Impiega tre turni per uscire da una pozza d’acqua. La doppiano sia Carlo che Maurizio. Delia arriva terza, lei ultima.
Finalmente.
La mamma sta raccogliendo le cose per andare a casa.
La sua prima corsa dalla mattina, una corsa quasi allegra, speranzosa, con un respiro che cerca profondità, Francesca la fa per andare a lavare paletta e secchiello. Radunare tutto. E via.
Papà e mamma non hanno preso il canotto. Un po’ spostato, giace lontano dall’ombrellone chiuso. Senza dire una parola, è Giulio a raccoglierlo. Lo tiene alto sopra la testa e di nuovo le strizza l’occhio, quando lei alza lo sguardo.
E mentre per un attimo rivolge l’attenzione a Francesca, Giulio non vede che suo figlio, Maurizio, ha strappato il giglio più vicino alla spiaggia, l’ultimo, quello che, per Francesca, custodiva il mare, lo inaugurava. Maurizio l’ha strappato e subito buttato. La corolla bianca si è accasciata nella sabbia, tra mille granelli che la sgualciscono all’istante.
Sono in auto.
Il canotto è chiuso nel bagagliaio, l’auto si muove piano, supera le dune, si avvia lenta attraverso la campagna; fino alla casa bianca.
A Francesca la casa piace moltissimo, ma soltanto sopra, dove ci sono tutte le stanze, e la cucina e il terrazzo con la tettoia di cannette. Sotto, dove c’è il fienile, non le piace per niente. Deve essere pieno di scarafaggi, formiche, forbicine, dicono anche scorpioni. Fanno la tana nelle balle di fieno.
La casa brilla di piccole luci, la campagna è esausta. Tira mille sospiri d’affanno in un vento lieve e alto, ma, ancora, anche nel pomeriggio tardo, vince su tutto il calore del giorno.
A Francesca, di solito, piace quel momento, quando tornano a casa e cambia la luce.
Ma quella sera trepidante, vorrebbe accelerarne la fine. Per vedere se lei c’è, nel buio del bagagliaio.
Scende per prima dall’auto e si pianta alle spalle del papà, che apre il portellone per togliere la borsa degli asciugamani appoggiata nel canotto.
Francesca aspetta quel momento da ore, con gli occhi spalancati e brucianti di sole, salsedine e lacrime trattenute. Ma, là sotto, nel canotto, c’è solo poca acqua sporca, con un odore cattivo.
Il papà impreca contro gli asciugamani pieni di sabbia, l’auto sporca di sabbia, «’Sto cazzo di canotto», e butta fuori tutto malamente. A terra, dove è pieno di cardi e altre piccole erbe che si appiccicano a tutto, con mille spine che saranno difficili da togliere completamente.
Francesca sta lì, a un passo dal padre rabbioso, a ogni sua imprecazione ha un riflesso che le fa chiudere gli occhi, ma non si sposta di un passo e aspetta che lui scaraventi fuori ogni cosa, e cerca con gli occhi la sua balena nell’esplosione.
E no, non c’è.
Gli occhi di lacrime, si volta, si allontana.
Sale le scale, senza guardare in direzione del fienile.
Sono già tutti in casa. Anche le altre famiglie.
Fanno la doccia, tutti prima di lei, anche i grandi.
Più ospiti ci sono, più la mamma diventa insopportabile.
Sembra che ci sia in visita la regina di Inghilterra con tutta la corte reale. Prima di tutti, vengono gli ospiti. La doccia: prima gli ospiti. Scegliere il posto a tavola: prima gli ospiti. Servire la pasta: prima gli ospiti.
Non portare in giro la sabbia per tutta la casa. Non metterti lì, Francesca, non sederti sul divano con il costume bagnato.
Francesca si sposta in terrazza, tutto è apparecchiato bene.
Non toccare i piatti con quelle mani sporche.
Allora Francesca si mette in un angolo del terrazzo. Dove c’è lo zampirone, una spirale verde acqua. Puzza anche da spento. Una fila di formiche va e viene da un buco nelle piastrelle. Alcune salgono altre scendono sotto, nel fienile. Francesca si chiede se da quel buco ci passino anche gli scarafaggi, neri, ed è sicura di sì. Forse non gli scorpioni, ma le forbicine? Preferisce pensare agli scorpioni che alla sua balena, che non c’è. Poco lontano, strepitano i freni del treno che si ferma. Lo sente lungo la spina dorsale, come se la sua schiena fosse attraversata dalle rotaie.
La stazione è vicina. Il treno di giorno arriva, carica scarica e riparte. Poi, i treni della notte, non si fermeranno più. Quella è una stazione minore, di notte passano quelli rapidi che collegano il Nord al Sud ma non collegano Capalbio a niente.
Sente le voci degli altri bambini; sono già pronti per la cena. Delia ha un vestitino bianco con le bretelline di pizzo e i capelli biondissimi di sole. Maurizio e Carlo bermuda come principini inglesi.
Sul letto di Francesca la mamma ha messo esattamente la gonna che lei odia. Di jeans.
Dà uno strattone alla lampo sperando che si rompa, ma non succede.
E poi, una maglietta gialla. Il colore che lei detesta. Il collo alto, le mezze maniche larghe. A mitigare lo scempio, ci sono le sue Superga blu. Bellissime. Se le mette ignorando i calzini bianchi che la mamma le ha preparato. Li nasconde sotto il cuscino. Va a cena. Sono tutti a tavola, le forchette contro la ceramica, vongole, olio che rende gli spaghetti scivolosi. Mangia anche lei. Con la bocca piena non deve parlare. È la regola. Ma questa volta è contenta che ci sia. Delia la guarda nel suo vestito bello: ma come sei vestita, si legge nei suoi occhi. I ragazzini più grandi la ignorano.
Odore di zampirone acceso. Papà si lamenta per l’odore di zampirone che disturba la sua cena. Lucio piange, rosso in volto, di sole, di stanchezza. La mamma a metà cena si alza per metterlo a nanna. E lui non vuole proprio addormentarsi. Tutti i bambini sono sazi dopo la pasta e Maurizio e Carlo decidono che si va sotto a giocare a nascondino.
Il cielo è attraversato dalle ultime strisce di sole, di nuvole grigie lunghe, sfilacci di rosso e di rosa; si fa prima chiarissimo e poi azzurro, di un azzurro che piano piano si mangia la luce. Una delle nuvole assume la forma di una balena. Francesca la guarda finché non cambia forma, senza prenderne una nuova. Solo, svanisce.
A nascondino Francesca non trova mai nessuno e viene sempre tanata. Poi si gioca a strega comanda color. E Francesca che a vedere i colori è veloce, vince. Non le sembra vero. Maurizio la guarda come se la vedesse per la prima volta. Le strizza l’occhio. E Francesca si lascia mettere un braccio intorno al collo. Non c’è affetto, ma nessuno l’aveva più abbracciata, dalla mattina.
Poi i giochi, ripetuti cento volte, finiscono, i genitori sono tutti impegnati a ridere e a fumare in terrazza. Lucio, in camera, piange ancora, non si vuole proprio addormentare.
Maurizio, esaltato dalla serata che sembra senza controllo e senza orologi, dice: «Andiamo nel fienile». Ai bambini è vietato andarci. Ci sono ancora forconi, attrezzi, e bestiacce.
In quel momento passa il primo treno della sera, quello che non ferma qui. Passa veloce e con le luci accese e per un attimo tutto è diverso e sembra collegare non solo il Sud e il Nord, ma anche il fienile alla casa, con una strada di luce artificiale che potrebbe portare Francesca sopra, dritta nelle braccia dalla mamma.
Ma è una strada che appare e scompare con il treno e Francesca non la imbocca.
Qualcosa la frena.
Forse è Maurizio che le tiene ancora un braccio intorno al collo. Sono i suoi passi a decidere il ritmo.
Mentre sono sulla soglia del fienile, il cielo alle loro spalle non ha più colori. E non c’è la luna. Le prime stelle appaiono lontane nel buio, ma sono dentini da latte distanti l’uno dall’altro che non possono illuminare la bocca buia del fienile. Bocca che sa di paglia, che sa di umido, bocca che Francesca immagina piena di insetti più neri della più nera delle notti nere. Insetti capaci di mangiarsi, tutti insieme, la luna, se fosse nel cielo.
Maurizio si slaccia da lei, l’abbandona nel buio.
Maurizio e Carlo camminano sui cubi di paglia, Delia non entra nel fienile. Sta sulla soglia e tiene d’occhio la scala. Ha un fiore in mano, un fiore di campo lilla, che completa la sua immagine di fata. Francesca sta con le spalle quasi al muro, appena dentro la soglia, esattamente dove Maurizio l’ha lasciata.
Alza gli occhi e vede le formiche che vanno verso l’alto. Da lì, a concentrarsi bene, si sentono le voci dei grandi e non il pianto di Lucio, che ora dorme. Bene. Allora forse adesso la mamma potrebbe esserci, per lei. E Francesca potrebbe salire e sperare di essere presa sulle ginocchia, abbracciata, sentire la schiena contro la pancia della mamma, sentire i suoi seni morbidi sulle costole, il profumo del doposole e gli anelli alle dita di mamma che le fanno appena male, ma per ridere, un male dolce, quando lei intreccia le mani alle sue.
Potrebbe salire.
Adesso che i maschi sono impegnati a vedere chi riesce ad arrampicarsi sul cubo di fieno più alto, chi è più audace, chi è più avanti, chi non cade. Nessuno le direbbe niente, ora.
Potrebbe scivolare via, protetta dalla notte.
Magari se ne accorgerebbero troppo tardi. E la notte, il sonno che ripulisce con il buio tutte le parole e gli sguardi, avrebbe lavato via quel piccolo tradimento di tornare dai grandi come una bambina ancora piccola.
Ma Francesca non si muove.
Se torna di sopra, riporta l’attenzione su dove sono, cosa fanno i bambini. E, per Maurizio e Carlo, ciao giochi notturni nel fienile.
Di nuovo, sarebbe colpa sua.
No, non riesce a prendersi la colpa di un’altra cosa. Il canotto con Lucio, le è bastato. Pensare canotto è subito pensare balena e subito le torna un nodo in gola; sulla diga sottile delle palpebre premono milioni di lacrime.
Allora, per fermare il pianto prima che sfondi il muro, si accovaccia, prende un bastoncino di legno e disegna nella polvere di terra scura del fienile, che le ha già steso un velo uniforme sulle Superga.
Disegna una mamma e un papà, e in mezzo una bambina che li tiene per mano. Poi cancella tutto con il palmo e butta lontano il bastoncino. Ma ha bisogno di fare qualcosa per distrarsi da tutto: si mette a giocare con i lacci delle scarpe.
Fa scorrere due dita fino alla fine della stringa, che termina in un cilindretto di plastica dura. Si tiene impegnata pungendosi la pelle. È solo un rito come un altro per aspettare che le lacrime svaniscano.
Ci è quasi riuscita: il lieve dolore che prova sta assorbendo ogni emozione quando le scarpe da basket di Maurizio compaiono sotto i suoi occhi: «Oh, ma ti stavo chiamando, vieni o no a giocare?»
«A cosa?» Chiede con poca voce Francesca. «Vieni», le dice e la prende per un gomito e la fa alzare: «A un gioco che alle femmine piace sempre. Giochiamo al dottore».
Sì, è vero a Francesca piace. Ma con le bambole. E lì non ci sono bambole. Solo cubi di paglia e buio. Sul pavimento ci sono le formiche, gli scarafaggi e gli scorpioni: «Io non ci gioco», dice Francesca, «mi fa schifo qui».
«Si fa la conta», sentenzia Maurizio, «magari non esci tu».
Fanno la conta. Ambarabaciccicoccò tre civette sul comò che facevano l’amore con la figlia del dottore il dottore si ammalò ambarabaciccicoccò. Francesca è confusa dalle parole di quella filastrocca che non capisce appieno. Ma giurerebbe che l’ultima sillaba sarebbe dovuta cadere su Delia. Invece Maurizio ha il dito puntato verso di lei. E il sorriso che le fa dopo, la bocca larga, i dentoni, lo sguardo fisso, non prevedono discussioni.
Francesca protesta con gli occhi grandi; ma non escono parole dalla sua bocca. E le lacrime tra bambini non servono. E non ci sono arbitri a dire che cosa sia giusto e che cosa no.
«Va bene. Allora che cosa ha, signora», sta già dicendo Maurizio a sua sorella: Maurizio fa il medico, Carlo l’assistente, Delia la mamma: «Ecco, dottore, la mia bambina ha male».
«Ah sì, signora, non si preoccupi, ora la curiamo. E dove ha male?» Delia dice: «Ha male in due punti. Alla pancia…»
«Alla pancia?»
«Sì, alla pancia».
«Alza la maglietta, bambina, il dottore ti guarda la pancia».
Francesca alza la maglietta gialla, e tra pancia e stomaco sente diffondersi una sensazione calda e fredda insieme e le sembra di non avere più i piedi attaccati alle caviglie. Sono due ghiaccioli, lontani.
Maurizio l’ha spinta con le mani grandi contro il muro. Con le costole Francesca ne sente tutte le gobbe, i mattoni messi storti, sotto gli strati di vernice bianca. In giardino si è accesa una luce.
Fa’ che siano i grandi.
Anche se potrebbe scappare a destra o a sinistra e dimenticarsi di tutto, di tutti, buttarsi nella notte, di sopra, nel suo letto, tanto tra poco verranno comunque a chiamarli.
Non scappa.
Ma la luce per un attimo ferma ogni gesto, non illumina nessun adulto.
È solo il lampione difettoso del giardino, che si accende e spegne quando vuole e taglia i volti e gli spazi nel fienile in fette chiare e fette scure, in ombre oblunghe.
E in questo gioco di luci c’è lei in piedi, scomoda. Con le mani di Maurizio che le toccano la pancia: «Sì, per questo male di pancia ci vuole una puntura. Ma non sentirai niente. Assistente, la siringa!»
Carlo prende da terra il rametto con cui prima Francesca disegnava. E Maurizio la fa girare con una mossa repentina e imprevista, poi le preme il rametto contro la tasca della gonna di jeans. Le sembra più doloroso di una siringa vera.
Bene, adesso dovrebbe essere passato. Francesca non dice niente, è diventata come le sue bambole, in balia degli altri che stanno giocando con lei. Non ha nemmeno più bisogno di respirare. Forse impara, proprio in quel momento, che se non respira sente di meno tutto quello che non le va di sentire, di essere un giocattolo per gli altri. Ma non sa come fare a dire basta.
Ha una voce dentro di lei, una voce di nessun aiuto, che si allea con gli altri bambini, che sta sempre alle regole che hanno deciso gli altri, e le suggerisce che avrebbe dovuto dirlo prima, che ormai questo gioco non si può più fermare. Che adesso ci deve stare.
«E poi dove ha male?»
Il gioco prosegue.
«E poi ha male sotto».
«Dove sotto?»
Delia ride e arrossisce. «Ma sì sotto! Sotto!»
«Alla patatina!»
«No!» Francesca riesce a dire un no. Ma è come se non lo dicesse, perché qualcosa dentro di lei paralizza i gesti, i movimenti, il corpo. E per qualche motivo che non capisce resta ferma, immobile, zitta. Prova anche una dolcezza che non conosce, in mezzo alla confusione, come una ciliegia dentro una tazza di aceto.
È lei stessa a tirare su la gonna? Ad abbassare le mutande? O lascia che lo facciano loro?
Perché non si oppone? Perché non scappa via? Forse perché si sente addosso una colpa per cui deve punirsi? Perché spera che quel dottore la guarisca, facendole anche male, quella ferita che le è rimasta addosso da questa mattina, che la porti altrove? Altrove da cosa? Dall’aver quasi ucciso suo fratello? L’aver fatto qualcosa che possa allontanare l’amore di mamma e papà? Perché? Per quali regole infrante?
Carlo, l’assistente. Maurizio, il dottore. E Delia, no Delia non fa niente, ride e guarda e si dondola su un piede solo e si stropiccia gli occhi, ha sonno adesso, una spallina bianca le cade di lato e lei sposta il fiore lilla da una parte all’altra della piccola bocca, il lungo stelo che non arriva a sfiorare il braccio di Francesca. Forse si è dimenticata di essere la mamma, è solo felice di non essere lei al posto di Francesca.
Francesca, la bambola. Come gli animali vorrebbe fingesi morta, un modo per sopravvivere.
«Assistente, mi passi lo strumento».
«La siringa?»
«Ma no, scemo, non la siringa, l’altro».
«Ah, l’altro». Carlo fa finta di cambiare strumento, ma è lo stesso bastoncino di legno. Francesca volge, veloce, lo sguardo, verso la mano di Carlo. Giurerebbe di averci visto uno scarafaggio nero, sul bastoncino con cui ha disegnato mamma e papà e lei in mezzo, e poi li ha cancellati, con le mani, in nuova polvere.
Allora chiude gli occhi, ma è come se vedesse tutto.
E in quel momento, puntuale, veloce e indifferente, senza fermarsi, come sempre nella notte, passa il treno. E copre tutto quello che sta succedendo a Francesca con il suo frastuono di metallo pesante sulle rotaie, che inspiegabilmente non sveglia i bambini più piccoli, che dormono già da un pezzo, al sicuro, sotto la coperta leggera.
Francesca ora è nel letto. Il freddo morde ancora le dita dei piedi.
Dall’alluce al mignolo, passando per un dito che è cresciuto storto, che si infila sotto il vicino, come per proteggersi o nascondersi. Ma non prende le calzine da sotto il cuscino.
La bambina si è tirata il lenzuolo sopra la testa e sta lì sotto, respira a fatica. Le pupille si muovono sotto le palpebre abbassate, in quell’interminabile giornata in cui ha detto pochissime parole, tutte inascoltate.
Balena, balena, apre gli occhi nel buio per scacciare l’immagine della balena nel mare scuro, la stoffa appesantita dall’acqua che va sempre più giù, non sa nuotare. Dovrebbe stare lì, tra le sue braccia, o evaporare in nuvola, avere occhi di stelle, diventare un pesce luna, attraversare il cielo. Rientrare dalla finestra aperta, rotolare tra le tende. Tornare da lei.
Per non sentire il dolore dell’assenza, compie un’azione che perfezionerà nel tempo, quasi ogni sera, per molte notti che diventeranno mesi e poi anni.
Si rannicchia su un fianco, incrocia le braccia sul petto, stringe forte le spalle con le mani e chiude il torace su se stesso. La fatica di respirare aumenta, ma i sentimenti, le emozioni, la realtà, si allontanano e lei si sente meglio.
Ha trovato una posizione perfetta per volare via. Non è difficile trovarla, le viene istintivo impararla e si accorge che è un tipo di gioco che nessuno può rubarle. Nessun canotto, nessuna regola. Nessun bambino più grande. E che non fa male a nessuno. Nessuno può darle la colpa di niente se inventa balene di nuvola, con occhi di luna, spruzzi di stelle.
Per fare questo gioco, basta stare abbastanza ferma, al buio, zitta, e trasferirsi altrove: immaginarsi un posto, un quando, una situazione perfetta.
Si immagina vestita con l’abito bianco e verde con i ciclamini, quello che avrebbe voluto questa sera, e i capelli lunghi, e i sandaletti con un fiore bianco che li decora. Si vede seduta su una seggiola rossa in una casa bellissima, è settembre, il cielo è blu e lei pettina una bambola le sistema i capelli intorno al viso, capelli lunghissimi che diventano un vestito, quando è nuda.
Non è vero niente. E non lo sarà mai.
Ma è tutto consolante, perfetto, esattamente come lo vorrebbe.
Si addormenta così, mille chilometri lontano da lì e da se stessa.
Dopo qualche minuto, puntuale come ogni notte, passa un nuovo treno. Emette un fischio lungo. E si porta via ancora un po’ d’estate, senza svegliare più nessuno.
Da qualche parte nel mare, non troppo lontana da lì, la piccola balena di peluche è in balia di onde che la rivoltano, avvolgono, abbandonano. Anche lei non respira bene. Anche lei ha nostalgia di Francesca. Anche lei si sente sola.
E anche lei sogna.
Sogna di crescere, di non temere il mare, di avere dentro di sé il sole e la luna, di sapere istintivamente dove andare, di incontrare le sue sorelle e di cantare.
Marina Gellona (1974) vive a Torino e lavora alla Scuola Holden dove insegna tecniche della narrazione. Alcuni suoi racconti compaiono in: Via dei matti n. 0 di Terre di Mezzo, Cento storie per quando è troppo tardi, Cento storie per quando è veramente troppo tardi di Feltrinelli. Cura una rubrica narrativa mensile sulla rivista Giovani Genitori, scrive per Confidenze e ha ideato un progetto, Infinit∞marzo, per raccontare le donne della sua città.
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