I peccati originali dell’America
“Esperimento americano” di Benjamin Markovits
di Chiara Gulino / 29 gennaio 2018
Si fa un esperimento quando si intende dimostrare, confermare o brevettare la bontà di una determinata operazione o fenomeno, per osservarne e scoprirne le leggi che lo governano. Se però i reagenti impiegati nel fatto empirico sono degli esseri umani, soprattutto se diversi fra loro per estrazione sociale, etnia e livello di istruzione, il successo è tutt’altro che scontato, anzi sfiora quasi la velleità dell’utopia.
Esperimento americano di Benjamin Markovits (66thand2nd, 2017), scrittore americano-anglo-tedesco noto per una trilogia di romanzi su George Byron e per il memoir Un gioco da grandi (66thand2nd, 2012), è il racconto dell’ideazione prima e della realizzazione poi di un sogno politico, urbanistico ed economico. È anche un ritratto generazionale, un’indagine sul campo ma anche un romanzo sull’Io.
Il titolo in italiano, diverso dall’originale You Don’t Have to Live Like This, deriva da un discorso che Obama fa nel romanzo. Il libro narra infatti la storia di ex studenti di Yale, adottando il punto di vista di uno di essi, Greg Marnier detto Marny, lacerato tra ambizione personale, paure e insicurezze, impegnati in un’opera di gentrificazione, ossia di riqualificazione di aree urbane depresse e degradate della città di Detroit. Già prima di arrivare a Detroit, il protagonista descrive la desolazione che scorre davanti ai finestrini della sua auto: «Camminando vedevo come il quartiere cambiava da strada a strada. Le case bruciate lasciavano il posto a case sprangate, a loro volta rimpiazzate da case vuote con il cartello IN VENDITA affisso alle finestre».
Marny è come se passasse in rassegna la situazione drammatica che, con la questione del conflitto razziale irrisolto e il perdurare delle diseguaglianze, attraversa l’America, di cui Detroit è la cartina di tornasole, per poi riflettere sulla particolare condizione dei giovani laureati, talvolta usciti da prestigiose università come Yale, che si trovano a svolgere funzioni molto meno retribuite o qualificate e comunque perennemente precarie, di quanto avessero immaginato e si rendono conto che il loro futuro non sarà migliore di quello toccato in sorte ai loro padri. Nulla gli è garantito se non la sconfitta.
L’idea però di potersi trasferire lì e acquistare case a prezzi vantaggiosi, vere e proprie occasioni in stile Groupon, conteneva la speranza di un nuovo inizio o quantomeno di un possibile cambiamento.
È sotto questa spinta che Marny decide di accettare la sfida del suo ex collega di università Robert James e di andare a vivere nella start-up community da lui ideata. Ben presto però emergono le difficoltà di convivenza con i vecchi abitanti, soprattutto afroamericani e l’operazione si rivela per quello che è: una mera operazione speculativa e il tentativo di cambiare il volto di intere aree di Detroit.
Lo scontro che vede opporsi Nolan e Tony, due personaggi che rappresentano rispettivamente i vecchi residenti neri, spesso appartenenti ai ceti popolari, e i nuovi arrivati che sono per lo più bianchi della classe media, è la dimostrazione di come sia impossibile superare gli atavici ostacoli, diffidenza e reciproci sospetti.
L’annuncio di un futuro migliore prende così le sembianze di uno scontro di classe fra culture diverse con tanto di risse, rapimenti e processi.
Marny rappresenta molto bene questo tipo di contraddizione americana: è un intellettuale, un Democratico convinto (all’inizio partecipa anche alla campagna di Hillary per le primarie del 2008), ma la prima cosa che fa, appena partito per Detroit, è comprare un fucile e poi una pistola, perché è molto difficile separare il senso del pericolo, in una città, dagli altri pregiudizi. È un giovane incerto e quasi trascinato nelle sue convinzioni e scelte, prigioniero delle ossessioni della società odierna.
In tutto Esperimento americano c’è una grande attenzione ai dettagli, alle descrizioni, ai personaggi: effetti e processi sembrano osservati da un microscopio. Tutti sembrano condividere una certa precarietà emotiva, abitativa e lavorativa. Al centro del romanzo c’è il concetto di casa e di conseguenza la sua mancanza è il simbolo dello spaesamento ma anche del fallimento patito dalla generazione che il romanzo racconta. L’autore costruisce le storie sul contrasto tra la banalità del quotidiano e i fattori di instabilità che continuamente lo scuotono.
Il romanzo inoltre dice tanto sulle radici sia europee che americane dell’autore. Marny, come l’autore, ha vissuto a lungo in Inghilterra. Quando vivi all’estero e torni, sei ossessionato dal pensiero rivolto alla vita che avresti potuto condurre se non fossi andato via; alla vita che i tuoi vecchi amici stanno conducendo. Ma è anche vero che alla fine non cambia nulla e si torna al punto di partenza: «Il problema dell’essere pionieri è questo. Vuoi una vita nuova. Ti trovi un avamposto e nel giro di poco tempo è proprio identico alla vita che hai lasciato».
(Benjamin Markovits, Esperimento americano, trad. di Gabriella Tonoli, 66thand2nd, 2017, pp. 376, euro 18)
LA CRITICA
Il libro riporta a galla i peccati originali di un paese costruito sullo schiavismo e il razzismo e a Detroit in particolare convivono il meglio e il peggio dell’America.
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