Una madre fragile come cartapesta
"La Bambola" di Ismail Kadare
di Andrea Rényi / 26 marzo 2018
Ismail Kadare, voce di fama internazionale della letteratura albanese contemporanea, scrittore tradotto in oltre quaranta lingue, vincitore nel 2005 del Man Booker Prize appena istituito, più volte in odore di Nobel, nel 1994 torna con sua moglie Helena a Tirana dal loro esilio parigino, perché la madre di lui è in fin di vita. Lo scrittore ha quasi sessant’anni, la madre quasi ottanta, da quattro anni Kadare e sua moglie vivono a Parigi: la perdita della madre non è dunque solo immancabile e imprescindibile dolore ma anche tempo di bilanci, di riflessioni sul rapporto figlio-genitore, di rivisitazione dell’intera esistenza fatta di cerchi concentrici: è da qui che muove La Bambola (La nave di Teseo, 2017).
Il figlio viene colpito prima di tutto dalla leggerezza fisica della madre: il corpo così lieve da poter essere agevolmente trasportato in braccio è anche la metafora del peso che la signora Kadare ha avuto nella vita, quello di una figura che non ha mai voluto né saputo imporsi, e non solo perché gli usi e i costumi della sua epoca e del suo paese difficilmente glielo avrebbero concesso. Nel 1933, a diciassette anni, la Bambola, come la chiama lo scrittore, figlia del clan Dobi, una famiglia agiata di Argirocastro (Gjirokastër, Albania meridionale), va in sposa a un membro del clan Kadare, considerato avversario e di scarsa consistenza economica, ma proprietario di una grande casa tricentenaria. Questa casa per lei sarà motivo di perenne malessere sia per le dimensioni che per la presenza ingombrante della suocera.
«Mentre la causa delle lacrime di mia madre rimaneva misteriosa, per la sua disperazione era il contrario. Lei stessa non esitava a spiegarne il motivo, usando un’espressione che quando la sentii per la prima volta mi fece gelare il sangue e ogni volta che la ricordo continua a farmi venire la pelle d’oca: “La casa mi divora”.» Un mondo chiuso fatto di rancori, in cui la clausura volontaria praticata dalla suocera è considerata una virtù, e dove il marito, avvocato di poche parole, si dedica appassionatamente solo alla ristrutturazione dell’abitazione. La propria insignificanza e la mente lenta, sempre in difficoltà nel comprendere, opprimono l’anima ingenua della Bambola anche dopo la scomparsa, nel 1955, della scomoda suocera. Riuscirà a sentirsi più a suo agio solo nella nuova casa di Tirana. Nel 1975 muore il marito, e i figli si allontanano, com’è nella natura delle cose, senza clamori e volendole bene. Ma lei vivrà sempre nella paura di essere rinnegata dal figlio divenuto celebre intellettuale, un timore dovuto alla sua innegabile capacità di riconoscere l’assenza in lei di qualsiasi qualità. Tranne quella di saper essere umile. La casa di Argirocastro, elemento centrale e apparentemente indistruttibile nella storia di famiglia, verrà casualmente distrutta nel 1999 da un bombardiere inglese durante la guerra civile dell’ex Jugoslavia.
In questo breve romanzo Kadare tratteggia con poche pennellate molti personaggi, attribuendo solo alcune caratteristiche fondamentali. Fra loro anche la schiva figura paterna che, pur avendo solo due segni di distinzione, la passione per la casa degli avi e per il giornale quotidiano, suscita ugualmente curiosità e una certa simpatia. Ed è probabilmente la dimostrazione più eloquente dell’abilità dello scrittore, quella di saper rendere interessanti figure grigie, monocromatiche, di far trasparire legami, affetti mai vistosi, eppure duraturi.
Tuttavia il vero, grande protagonista di questo esile volume è l’autore stesso, quindi l’opera è più autobiografica che biografica. Ed è curioso è quando mette in risalto il proprio narcisismo, di cui fa una sorta di cronaca aprendo il dibattito sull’ambizione dell’artista, tema eterno su cui riflettere.
Confrontarsi con la madre da vecchio e dopo vent’anni dalla morte di lei è cercare di comprendere se stesso, le scelte fatte e le circostanze che la vita ha imposto. Per quanto riguarda se stesso Kadare ne viene a capo, la figura materna rimane invece avvolta nella nebbia del mito e delle domande non poste e non risposte. «“Le madri sono gli esseri più difficili da comprendere” mi disse durante una cena a Parigi Andrej Voznesenskij. […] approfittai per chiedergli spiegazioni su alcuni suoi versi che avevano fatto molto scalpore […] c’era un verso in cui la parola madre, in russo mat’ […] si ripeteva tre volte, Matmatmat, mentre la quarta volta c’era solo la sua metà, ma, unita alla fine del verso alla lettera t di mat (alla madre), creando la parola tma, che in russo vuol dire oscurità».
(Ismail Kadare, La Bambola, traduzione di Liljana Cuka Maksuti, La nave di Teseo, 2017, 127 pp., € 17.00)
LA CRITICA
«Non poteva più lamentarsi per la mancanza di attenzione: ne era al centro nel ruolo di defunta, il primo personaggio dell’antico dramma, come veniva ormai studiato dagli studenti di tutto il mondo»: una madre piccola e fragile come cartapesta, in un’Albania segnata dalle tradizioni.
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