L’insostenibile inadeguatezza dell’essere
“Tutto quello che è un uomo”, raccolta di racconti di David Szalay
di Martin Hofer / 17 aprile 2018
È uscito nell’autunno dello scorso anno Tutto quello che è un uomo (Adelphi, 2017), il primo libro dello scrittore canadese di origini ungheresi David Szalay a essere pubblicato in Italia.
S’intitola Tutto quello che è un uomo (All That Man Is, 2016) anche se forse sarebbe stato più esatto intitolarlo Quello che un uomo dovrebbe essere, o, ancora meglio, Quello che un uomo vorrebbe essere. Al centro di questi racconti, infatti, ci sono nove protagonisti maschili accomunati da un unico tratto: il profondo senso di inadeguatezza nei confronti di ciò che vorrebbero-dovrebbero essere.
Uno studente inglese in Interrail, un giovane francese sfaticato in vacanza a Cipro, un personal trainer ungherese a Londra, un ambizioso vicedirettore di un tabloid danese, uno scozzese senza arte né parte che vivacchia in una città dell’entroterra croato, uno stanco oligarca russo a bordo del suo yacht nel Mediterraneo, un ex-funzionario ormai in pensione angosciato dal pensiero della morte.
Personaggi anagraficamente e geograficamente lontani, chiamati a dover fare i conti con loro stessi e con un ambiente avulso (Berlino, Praga, Londra, le ville nei dintorni di Malaga, la Croazia, la campagna della Bassa Padana) che sembra esigere uno specifico modo di essere o di comportarsi.
«“Certe volte mi chiedo se è giusto come mi comporto con le donne”, dice. Rivoli d’acqua scorrono sul finestrino, su cui si staglia il profilo della sua testa.
“A te non capita mai?”»
(pag. 115)
«Ripensa alle facce dei passanti sul marciapiede, che osservavano la scena ridendo, puntando col dito per mostrargli il suo errore, sorridendogli. Alcuni sembravano comprensivi, il che lo ha fatto sentire ancora peggio. Dalle loro espressioni era palese che offriva uno spettacolo penoso – un vecchio che stava facendo una cosa troppo difficile per lui, combinando un guaio.
Ecco quel che dicevano le loro facce.
Ed è stato uno choc.
Non era quella l’immagine che aveva di sé»
(pag. 364)
Da qui nasce la frustrazione: l’azione dei personaggi non è mai spontanea, è piuttosto un goffo tentativo di adeguamento, di mimetizzazione puntualmente fallita.
Come dovrei sentirmi, cosa dovrei fare, chi dovrei desiderare? Questo sembrano chiedersi gli uomini di Szalay mentre attaccano bottone con una turista in un kebabbaro, o dormono sui divani di amici di amici. Più che dall’incapacità di assumere un determinato ruolo – il seduttore, il padre, il businessman, il bohémien – il trauma che li affligge nasce dalla consapevolezza di non volerlo vestire fino in fondo, questo ruolo.
Lo scarto nel desiderio maschile è spesso evidenziato dalla presenza di una donna irraggiungibile, da immaginare frettolosamente sotto il getto della doccia, o prima di dormire, ma a cui non si ha neppure il coraggio di rivolgere la parola.
In tal senso, il primo e il secondo racconto mettono in scena, seppur con destini opposti, un canovaccio esemplare. Nel primo, lo studente in interrail Simon ama in segreto una compagna di scuola, Karen Fielding. Nel secondo, Bernard cerca di nobilitare la sua vacanza solitaria abbordando una turista lettone.
Entrambi potrebbero cedere alle lusinghe di donne meno avvenenti – una quarantenne ceca trascurata dal marito per Simon, una madre e una figlia taglie forti per Bernard – ma un dubbio li blocca: accontentarsi di quel che si è, e di quel che si può avere, è una sconfitta? Forse no, pare suggerirci l’autore, «perché si impara ad amare quel che c’è, non quel che non c’è. Come fai a vivere altrimenti?». (pag. 370)
E se non sono le donne a mandare in tilt il maschio, ci pensano l’ambizione e le aspirazioni personali.
«Quanto guadagna Giles? Ne parlano a pranzo, davanti ai loro tramezzini confezionati. E il suo patrimonio a quanto ammonterà?
È entrato in azienda alla fine degli anni Ottanta. A volte, in occasione delle prime compravendite, aveva un interesse diretto, delle quote a suo nome, così racconta John; John, che è lì da sempre ma non ne ha tratto grandi vantaggi. Lui non ha mai avuto interessi diretti nelle compravendite.
E chi vuole finire come John?»
(pag. 231)
Le fughe e le ricerche degli uomini di Szalay si srotolano sul tappeto di un’Europa apparentemente priva di confini, collegata in modo capillare da aeroporti, treni, strade multicorsia attraverso cui è possibile spostarsi con facilità da una metropoli all’altra. Kristian, che in un solo pomeriggio “pendolareggia” dalla Danimarca alla Spagna per lavorarsi lo scoop della vita, potrebbe essere benissimo il protagonista di uno campagna pubblicitaria della Meridiana. Ma la moltiplicazione dei collegamenti rispecchia un reale superamento delle barriere nazionali e culturali?
Pagina dopo pagina, i personaggi dei racconti si scontrano con i confini immateriali del nuovo-Vecchio Continente: lo spaesamento, il turismo ottuso, il “jet-lag culturale”, la paura di sentirsi straniero, il viaggiare come esperienza che tende a replicarsi uguale a se stessa in luoghi sempre differenti.
Non è un caso che il primo titolo pensato per l’opera fosse proprio Europa: Szalay appartiene a una delle prime generazioni che hanno i piedi ben piantati in un ventaglio di cambiamenti epocali che vanno da Schengen a RyanAir, dal CouchSurfing all’Interrail.
Una delle storie che meglio descrive questa sorta di burnout è quella di Murray, uno scozzese che sembra essere fuggito da un romanzo di Irvin Welsh per godersi la disoccupazione nella ben più economica e soleggiata Croazia. Qualcosa però è andato storto. È l’Europa degli anni Duemila, quella che concede di viaggiare anche ai disgraziati e agli spiantati, ma non permette loro di conoscere ed entrare realmente in contatto con l’altro.
«Muore dalla voglia di ricevere un segno dai gemelli, un segno anche minuscolo del fatto che lo considerano un loro pari – un loro pari, niente di più».
(pag. 286)
Paura del sesso, della solitudine, della mediocrità, paura di invecchiare e poi morire. In fondo, le cause dello smarrimento maschile sembrano quelle di sempre, a cambiare è il campo da gioco, ormai frammentato e, nel vero senso del termine, sconfinato.
Finalista del Man Booker Prize 2016, Tutto quello che è un uomo inchioda i protagonisti di fronte a nove stagioni, nove momenti cruciali dell’esistenza.
Con un prosa netta e con descrizioni precise che pescano a piene mani nel torbido (le pareti sono spesso «ingiallite» e «macchiate di umidità», i divani «puzzolenti», gli spazi «angusti», gli scarichi «scrostati»), Szalay non promette ai suoi personaggi alcun tipo di consolazione o di lieto fine. Si limita a osservare le sue creature mentre vivono il loro piccolo, grande momento rivelatorio con timore e incertezza, cui, in certi casi, subentra una serena accettazione di sé. Perché come fai a vivere altrimenti?
(David Szalay, Tutto quello che è un uomo, trad. di Anna Rusconi, Adelphi, 2017, pp. 402, euro 22)
LA CRITICA
Un’operazione ambiziosa, quella di voler raccontare in un libro lo spaesamento dell’uomo contemporaneo nelle pieghe del sogno europeista. Fotografando nove stagioni nella vita dei suoi personaggi, David Szalay trova la formula adeguata per allargare il campo a una narrazione di molti che, in certi passaggi, sembra convergere nel racconto di una sola voce.
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