La premura del destino, il rigore della morte
"Addio alle armi" di Ernest Hemingway
di Edoardo Maspero / 21 maggio 2018
«Non avrebbe dovuto esserci tutto questo morire da dover passare».
Il dover morire. Non arbitrario, casuale, evitabile, scansabile, ritardato o scongiurato. Un dover morire che è dato di fatto. Non mors acerba o ingiusta, se non ingiustificabile, ma una morte che, come è inciso sul tempio crematorio del Kensal Green Cemetery di Londra, è la porta della vita «Mors est ianua vitae». Morte che non si raggiunge attraverso «gli appetiti, gli egoismi e i peccati capitali» decantati da Rimbaud, ma che giunge gocciolante in rigagnoli di sangue e si stagna in pozzanghere di fango. Ernest Hemingway, attraverso un romanzo fotografico (Addio alle armi, pubblicato in edizione originale nel 1929), sin dalla prima pagina descrive tronchi d’alberi polverosi e polvere che si solleva e foglie schiacciate sotto i piedi dei soldati. Descrive l’assurdità della guerra senza retorica o sentimentalismo, come un affresco disperato a cui l’umanità non può sfuggire. Le sue parole, le sue sfumature, in una prosa breve, secca e tagliente che aprirà poi le porte al minimalismo (al pari delle foto di Lewis W. Hine, che immortalò l’attività assistenziale della Croce rossa americana nell’Europa centrale nel 1918), sono documenti umani dell’aporia che si estende tra il vinto, che nella sconfitta «diventa cristiano», più per paura che per vocazione, mentre il vincitore che non cesserà mai il suo cammino vero la vittoria: «Nessuno ha mai smesso mentre vince», per quanto possa essere doloroso e umiliante per l’avversario.
Soldati bagnati, gelati e molto affamati che si nutrono della speranza di poter rimandare ad un oltre, ad una fine di qualcosa che sembra non poter aver fine per l’insazietà dell’uomo.
Un romanzo d’amore, d’infinito amore che si configura anch’esso come guerra, in cui i combattenti sono Catherine Barkley e Frederick Henry, contro il resto del mondo. La notte, come in Fiesta, suscita sempre terrore e distorsione di sguardo, ma è meno dura se trascorsa tra le braccia d’una donna amata che però, sotto la sadica dettatura dell’esistenza, si è costretti a salutare ogni volta, non sapendo se sarà l’ultima.
«Il mondo spezza tutti quanti e poi molti sono forti nei punti spezzati. Ma quelli che non spezza li uccide». Eppure la morte non è una tragedia che incombe sull’esistenza, ma una compagna sempre presente sul campo di guerra e in ogni affetto. Una ricomposizione lucida di equilibri. Della quale non si ha paura, si ha solo non voglia.
Il tragico finale e la prefazione conferiscono al secondo romanzo di Heminghway il dono di quell’artista che si fa veggente, e che nella neutralità di giudizio si sporge più di quanto un qualsiasi encomio possa fare. Hemingway, nella prefazione, ricordando la guerra e le cose che sono cambiate dalla fine di essa alla pubblicazione del suo romanzo scrive: «Scott Fitzgerald è morto, Tom Wolfe è morto, Jim Joyce è morto […] Anche una quantità di personaggi che avrebbero dovuto essere morti sono morti; appesi a capofitto davanti alle stazioni di rifornimento a Milano o impiccati bene o male in città tedesche superbombardate. Vi sono anche tutti i morti senza nome, alla maggior parte dei quali la vita piaceva molto».
Il protagonista, in una scena del romanzo, per scappare ad una fucilazione si getterà in un fiume, che gli recherà la salvezza. Il fiume che non solo è metafora della vita, ma nella tragedia greca è configurazione dell’Ade, che attraverso le sue cinque diverse risacche è pronto a inghiottire il defluire delle anime e, nel Lete, la loro memoria. Dunque, niente rimane se non polvere; la stessa polvere che accompagna le suole dei soldati.
Se le parole non bastano, le fotografie documentano. Ed è ciò che Hemingway, anticipando Capa, fa per tutta la narrazione. Con la terribile maestosa semplicità di chi il dolore non l’ha studiato o discusso, ma semplicemente vissuto.
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