Il sacrificio della vittima
Su “Dogman” di Matteo Garrone
di Francesco Vannutelli / 8 giugno 2018
La realtà è solo un pretesto, per Matteo Garrone. Lo è sempre stata, in tutti i suoi film, anche quando si è confrontato con Gomorra, partendo dal libro che aveva aperto una finestra privilegiata sul cortile della delinquenza italiana, anche quando il film si chiamava Reality. Per questo non c’è nessun canaro nel suo ultimo film, ma un Dogman, come un supereroe possibile.
I fatti sono noti, anche perché questa recensione arriva in ritardo per i tempi sempre più frenetici dell’approfondimento all’epoca di internet. Per il suo ultimo film Matteo Garrone è partito da un fatto di cronaca tra i più noti, efferati e sviscerati del giornalismo nero italiano, quello del cosiddetto “canaro della Magliana”. Una storia di vessazione e vendetta sullo sfondo di una periferia romana nota per i fatti della banda criminale già portata in letteratura, al cinema e in televisione. Dogman è arrivato in concorso al Festival di Cannes, è stato molto apprezzato e si è aggiudicato il premio per l’interpretazione maschile per il suo protagonista, Marcello Fonte, attore e regista molto più noto nel settore che al pubblico. L’interprete perfetto per il cinema fisico di Matteo Garrone.
In un quartiere degradato come una periferia bombardata, Marcello porta avanti la sua vita normale. Cura i cani nel suo negozio, pranza con i bottegai suoi vicini e progetta vacanze, in Calabria o alle Maldive, con l’adorata figlia Alida. È una vita semplice e felice, puntellata da un piccolo giro di criminalità e spaccio di cocaina per mantenersi. L’unica variabile imprevedibile è Simoncino, gigantesco ex-pugile che imperversa per il quartiere pretendendo, minacciando e picchiando. Marcello si trova, come tutti gli altri, a essere vittima della sua violenza imprevedibile. A differenza degli altri, però, finisce per essere suo complice, per salvargli la vita, per illudersi di poter avere un rapporto di amicizia. Ma è solo un’illusione.
I fatti di cronaca della vicenda del canaro avevano attirato e scosso l’opinione pubblica per la violenza spietata della vendetta. A Garrone non interessa il sangue, gli interessa la natura umana, i lati più oscuri delle dinamiche interpersonali, della proiezione e della percezione di sé. Tutto il suo cinema riflette sull’uomo, su come si vede e come vuole essere visto. Sono molti gli aspetti in comune tra Dogman e L’imbalsamatore, il film della notorietà nazionale. Anche lì partiva da un fatto di cronaca (l’omicidio del “nano della stazione Termini”), anche lì al centro c’era un rapporto sbilanciato e una vendetta, anche lì la fisicità aveva un ruolo fondamentale. Il cinema di Garrone è un cinema di corpi più che di persone. La magrezza come ossessione di Primo amore, la bellezza a tutti i costi di Il racconto dei racconti nell’episodio con Vincent Cassel. È la fisicità a determinare il destino.
Il rapporto tra Marcello e Simoncino è unilaterale. Marcello si illude di poter ragionare con il pugile, di ottenere qualcosa mostrandosi disponibile, pronto a subire senza ribattere. Non si rende conto che non c’è nessun livello umano nelle loro interazioni. Simoncino, non è l’archetipo dell’orco, è l’archetipo del bullo, del disordine illogico. Non può essere inquadrato in dinamiche codificate, agisce senza passato e senza futuro, conta solo l’istante. Animato da una bontà che lo porta a voler essere amico di tutti, Marcello si ritrova più volte nel ruolo di vittima consapevole di Simoncino. È terrorizzato dalla semplice presenza dell’ex pugile ma è allo stesso tempo affascinato dalla differenza fisica che li separa.
È questo livello malato del rapporto che ha affascinato Garrone. Il suo Dogman riflette sulla componente volontaristica dell’essere vittima. Marcello non si limita a subire, ma diventa complice e salvatore volontariamente perché pensa di poter riscattare la sua posizione subalterna. Pensa che dando più di quanto gli viene chiesto possa ottenere una nuova dinamica di rapporti, di poter liberare il quartiere dalla presenza minacciosa di Simoncino riuscendo a codificarlo, a imprigionarlo in una dinamica sociale convenzionale.
La vocazione al martirio di Marcello trova una nuova direzione nella parte finale del film. È il poster di Dogman a farci capire che Marcello si assume la croce di Simoncino, se lo carica, non solo metaforicamente, in spalla per liberare se stesso e tutti gli altri dal male alla ricerca di una salvezza che non è dato sapere se ci sia, da qualche parte.
Se Marcello Fonte è la vittima perfetta non si può non dire nulla su Edoardo Pesce che ci mette tutto il fisico e la cattiveria nel suo Simoncino, concentrato di irrazionalità, di istinto e di violenza.
(Dogman, di Matteo Garrone, 2018, drammatico, 100’)
LA CRITICA
Garrone prende a pretesto la cronaca nera per portare avanti il suo cinema di corpi. Dogman riflette in un modo inedito sulla dinamica vittima-carnefice e consegna due personaggi da ricordare.
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