La stanza delle meraviglie è vuota
di Francesco Vannutelli / 15 giugno 2018
Dopo Hugo Cabret, i romanzi di Brian Selznick tornano al cinema con La stanza delle meraviglie. Presentato al Festival di Cannes nel 2017, il film diretto da Todd Haynes è stato accolto con deciso scetticismo. Siamo molto lontani dagli standard di Haynes, uno dei registi visivamente più sorprendenti ed eleganti di Hollywood. Un autore, anche, capace di stupire e confondere con i suoi film.
La stanza delle meraviglie segue due piani temporali paralleli. Nel 1927, a Hoboken, New Jersey, Rose è una bambina sordomuta che colleziona articoli su un’attrice del cinema. Schiacciata da un padre severo, decide di partire per New York per cercare la sua attrice preferita e il fratello che è andato lì a lavorare. Ben, invece, cresce nella campagna del Minnesota del 1977 senza aver mai conosciuto il padre. È proprio un indizio su chi potrebbe essere che lo spinge a New York. Tra i due bambini non c’è nessun legame apparente, ma il destino li lega in maniera profonda.
unC’era una volta Todd Haynes, un regista provocatorio e visionario capace di andare sotto la scorza della società statunitense per mostrarne la vera pelle. Nel 1987 aveva raccontato in un cortometraggio la storia di Karen Carpenter, cantante morta di complicazioni cardiache collegate all’anoressia, usando solo delle Barbie. Nel 1991 aveva inaugurato il New Queer Cinema con Poison. Poi ci sono stati Velvet Goldmine, Lontano dal paradiso e il recente Carol, oltre a Io non sono qui, in cui tra i tanti attori chiamati a interpretare Bob Dylan c’era anche Cate Blanchett (la migliore anche in quel ruolo).
Con La stanza delle meraviglie Haynes ha deciso di abbandonare ogni tentativo di sguardo più profondo sulla società statunitense. È una storia per bambini senza seconde chiavi di lettura. Una storia triste – eccessivamente – di quelle in cui il dolore diventa chiave per la crescita. Una storia che vuole essere complicata – troppo –, per poter apparire più di quello che è.
Bloccato dal copione curato dallo stesso Selznick, Haynes ha trovato spazio di manovra soprattutto nella messa in scena, dando libero sfogo a tutto il suo talento visionario. La parte del 1927 è un omaggio al cinema muto, senza dialoghi, con la musica – a tratti ossessiva – a sottolineare i momenti chiave, con una recitazione enfatizzata. La parte del 1977 è un’esplosione di colori e caos, di luce e rumori. È un omaggio alle diverse anime del tempo di New York, la vera protagonista del film, mostrata in ogni suo centimetro nel fantastico panorama conservato al museo del Queens realizzato per l’esposizione universale del 1964.
Le immagini sontuose, però, sono a sostegno di una storia che non riesce mai a raggiungere il giusto slancio. Il parallelismo tra le due storie appare, soprattutto nella prima parte, forzato e basato sulla pura e semplice giustapposizione anziché su qualche tipo di struttura narrativa effettiva. È probabile che il limite più grande di La stanza delle meraviglie sia proprio nel suo sceneggiatore. Sembra paradossale che chi ha scritto un romanzo di successo non sia in grado di raccontare in un altro modo la sua stessa storia, ma è così. Hugo Cabret era stato riadattato per il grande schermo dallo sceneggiatore John Logan. Selznick, in questo caso, non è stato in grado di dare una forma nuova alla sua storia. Haynes non ha saputo trovare un equilibrio per mediare, e anzi la sua ricerca sulla forma finisce per essere uno sfoggio eccessivo di manierismo.
Peccato, perché gli elementi per un film emozionante ci sarebbero, a partire dalla selezione musicale che vede, ancora una volta al cinema, Space Oddity di David Bowie in un ruolo centrale, insieme a Also sprach Zarathustra in chiave fusion di Eumir Deodato, fino alle immagini dei diorami e panorami dei musei. Così com’è, resta la sensazione che di meraviglie, in questa stanza, ce ne siano ben poche.
(La stanza delle meraviglie, di Todd Haynes, 2017, drammatico, 116’)
LA CRITICA
Todd Haynes cambia direzione del suo cinema puntando, per la prima volta, su un film, seppur doloroso, rassicurante per le famiglie. La stanza delle meraviglie è bloccato dai limiti della sceneggiatura e dal talento del suo regista che finisce per sconfinare in un manierismo sterile.
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