Il tragico disintegrarsi di un’illusione
“Il grande Gatsby” di Francis Scott Fitzgerald
di Nicole Zoi Gatto / 22 giugno 2018
Approcciarsi a libri considerati capolavori della letteratura mondiale non è mai semplice. Quel timore reverenziale che si prova ogni qual volta si inizia una lettura del genere, spesso influenza il nostro giudizio creando aspettative che poi verranno inevitabilmente disattese o confermeranno l’opinione positiva universalmente espressa. Intraprendendo la lettura di Il grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald non si può, però, avere alcun dubbio.
Quello che ci si appresta a leggere non è solo uno dei romanzi più significativi della letteratura americana e mondiale, ma è anche (e soprattutto) il manifesto di quello che è stata l’America dei primi anni Venti; quella dell’età del jazz, quella delle feste senza regole, del boom economico, precedente alla crisi del ’29, che ha dato il via a un consumismo privo di freni e al delinearsi di quel sogno americano fatto di autodeterminazione ma anche di brutale materialismo.
A quello che T.S. Eliot ha definito come «il primo passo fatto dalla narrativa americana dopo Henry James», Fitzgerald ha iniziato a lavorare solo nel 1924 dopo aver scritto una versione riassuntiva del libro che aveva in mente nel racconto Winter Dreams (1922). La ricchezza corruttrice, il mito dell’apparenza a discapito dell’essenza e la dissolutezza che impregna la società ad ogni livello sono le tematiche sviluppate nel romanzo.
Jay Gatsby non è altro che un giovane di umili origini, arricchitosi non si sa bene in quale modo, che per riconquistare la donna amata decide di attirare l’attenzione di tutta la società borghese newyorkese organizzando feste sfarzose nel West Egg, sperando che in una di queste possa rivedere la sua Daisy.
Nonostante l’apparente velo di superficialità, Gatsby è il personaggio più sincero e pulito dell’universo fitzgeraldiano; il suo è un animo puro che impareremo a conoscere attraverso la voce di Nick Carraway, un giovane appena giunto a New York dalla provincia in cerca di fortuna, che ne fornirà una descrizione precisa. Conosceremo i difetti, le debolezze e la profondità emotiva di un uomo considerato unanimemente tanto misterioso quanto affascinante. Tante saranno le leggende sul suo passato; chi lo descrive come un omicida, chi come una spia. Eppure non è nulla di tutto ciò.
A un personaggio del genere non può che contrapporsi il cinismo e il costante alone di noia e rassegnazione che circonda la donna da lui tanto amata: Daisy, ormai sposata con un uomo rozzo e corrotto dalla ricchezza, che non si fa problemi ad intraprendere una relazione extraconiugale che è sotto gli occhi di tutti, persino di sua moglie.
Ma il ritorno ad un amore così bramato da Gatsby, non potrà avvenire. I due si riavvicineranno senza ritrovare il legame del passato: Daisy, che non lo aveva sposato (a dire di Gatsby) perché povero, è diventata specchio dell’intossicazione da lusso e sfarzo della società americana di quegli anni.
È troppo legata a ciò che ha raggiunto per lasciare tutto. È frivola come la luce verde al di là della baia, quella luce che indica casa sua e che Gatsby osserva e desidera fisicamente, allungando le mani ogni sera dalla sua villa per raggiungerla. Daisy brilla di luce intermittente ed effimera quanto l’amore che lei è in grado di provare.
In ogni romanzo di Fitzgerald si percepisce quanto la fonte di ispirazione per le sue storie sia la sua stessa vita; ha quasi un’ossessione autobiografica che lo porta a far nascere una Zelda in ogni racconto. L’amore di Jay e Daisy quindi, non è altro che quello di Scott e di Zelda; distruttivo, provante, tossico, un amore che lo accompagnerà fino alla morte.
Fitzgerald stesso dirà a proposito del romanzo: «L’idea del Gatsby consiste nell’ingiustizia per la quale un giovane povero non può sposare una donna ricca. Questo tema ritorna sovente perché l’ho vissuto».
In un universo privo di valori e involgarito dal vile denaro, l’innocenza e la genuinità di Gatsby non trovano posto. Se Daisy e Tom non sono altro che «polvere immonda che alleggiava sulla scia dei suoi sogni», Gatsby «credeva in te proprio quanto avresti voluto farlo tu stesso e ti rassicurava sul fatto di aver ricevuto da te esattamente l’impressione che volevi offrire, la migliore che avessi potuto sperare».
Con una prosa incalzante, Fitzgerald riesce ad attuare una critica feroce e profonda della società nella quale vive e, senza cercare di nasconderlo troppo, alla vita da lui condotta, legata all’alcol, allo sfarzo e a quella voglia di vivere a pieno come se non ci fosse un domani a cui pensare.
Emblematica è la fine del romanzo: la morte di Gatsby compianto da pochi, presagio di quello che avrebbe aspettato Fitzgerald al cui funerale non si presentò quasi nessuno.
Animi sensibili spesso si ritrovano terribilmente soli, non importa quanto in vita si è stati apprezzati, quanta gente animava le feste e le serate di goliardia; ciò che attrae è l’opulenza non il sentimento di amore o amicizia totalmente svuotato di significato.
Il ritratto fatto da Fitzgerald è privo di ipocrisie, è un fedele e sincero affresco dell’ America dei Roaring Twenties: nessun timore per il futuro e una condotta di vita incentrata sul qui e ora. Tutto questo ha reso Gatsby una lettura necessaria.
«Gatsby credeva nella luce verde, al futuro orgiastico che anno dopo anno indietreggia di fronte a noi. Ci è sfuggito allora, ma non importa: domani correremo più forte, allungheremo ancora di più le braccia… E una bella mattina… Così remiamo, barche controcorrente, risospinti senza sosta nel passato».
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