Scavare nella parte ambigua dei personaggi
“Fantasie di stupro” di Margaret Atwood
di Martin Hofer / 26 giugno 2018
È lecito, per una donna, fantasticare su una violenza sessuale? Un buffo giovanotto orientale che ti segue dappertutto è un maniaco o è soltanto una persona in cerca di nuove amicizie?
È forse questo uno degli spunti più interessanti e originali proposti dalla raccolta di Margaret Atwood Fantasie di stupro (Racconti Edizioni, 2018): non tanto l’osservazione del rapporto tra molestata e molestatore, ma il cortocircuito che la molestia provoca tra vittima e ambiente sociale circostante, a maggior ragione se ci troviamo immersi, così come si è in buona parte di queste storie, nel senso comune imbevuto di ipocrisia e sottile maschilismo di un Canada ancora ben lontano dall’immagine aperta e rassicurante sfoggiata negli ultimi anni.
«Non c’è bisogno di specificare che sono di ruolo, dato che il mio dipartimento, ostile alle donne per molti anni, è stato di recente messo sotto pressione per giustificare la sua politica di assunzioni». (pag. 153)
In questa cornice, “L’uomo che veniva da Marte” rappresenta un racconto esemplare: Christine, una ragazza garbata e affatto attraente, viene perseguitata da uno strano studente asiatico che con ostinata applicazione non vuole saperne di lasciarla in pace. La tipica storia di un’ossessione non ricambiata, quindi? Assolutamente no, perché la faccenda si fa molto più complicata.
Ad agitare lo stomaco di Christine non è soltanto il terrore della caccia, ma anche il senso di colpa sussurrato dal suo imprinting borghese («Era sollevata che fosse stato scoperto, sollevata anche di non essere stata lei a doverne parlare, anche se avrebbe avvisato la polizia da molto tempo nel caso lui fosse stato cittadino del suo paese», pag. 41) e un innaturale – o forse naturalissimo? – moto di vanità che il rocambolesco corteggiamento aziona di riflesso («Gli altri uomini la esaminavano con più attenzione di quanto non avessero mai fatto, la soppesavano, cercando di scoprire cosa ci trovassero in lei quegli occhi pieni di tic dietro le lenti», pag. 38).
In un ambiente dove le più comuni categorie per distinguere le donne sono «la rizzacazzi», «la gatta morta», «la preda facile» e «la stronza che se la tira» (pag. 38), Christine si ritrova protagonista di un instabile gioco di equilibri che la vede ora preda, ora oggetto del desiderio, ora artefice del proprio destino e di quello altrui.
Sono quattordici racconti nei quali il sottointeso, l’elemento ambiguo e contraddittorio che sborda dalle pagine, assume maggiore importanza di ciò che invece è manifesto.
Quando arriva il momento di separarsi? E cosa resta dopo? Tra innamoramenti fuori asse (“Polarità”), relazioni stagnanti (“Sottovetro”) e addii (“La tomba del poeta famoso”), nelle storie di Atwood il tempo per amare risulta sempre agli sgoccioli, le intenzioni sono scoordinate e mai reciproche.
«La banalità è, in fondo, l’antidoto magico per l’amore non corrisposto» (pag. 155), sentenzia la voce narrante in “Gioielli per i capelli”.
Eppure, i protagonisti (quasi sempre femminili, a eccezione di Morrison in “Polarità”, Edward in “Il quetzal splendente”, Rob in “Allenamento”) dei racconti di Fantasie di stupro, sembrano navigare a vista nella banalità di una condizione che soltanto un amore non corrisposto o ormai appassito può generare.
«Aveva paura di affrontarla perché sarebbe stata la fine, tutte le messinscene sarebbero crollate e loro sarebbero rimasti tra le macerie, a guardarsi in faccia. Non avrebbero avuto nient’altro da dirsi e a questo Edward non era pronto». (pag. 196)
Atwood si ferma qui, un attimo prima della deflagrazione. Nella più classica tradizione americana, la scrittura soppesata dell’autrice canadese vuole “dire” utilizzando il minor numero di frasi possibile. Si immortalano turbolenze, ambiguità, incoerenze, senza per questo volerle necessariamente commentare o interpretare.
Non bisogna dunque scandalizzarsi se, al cospetto di una toccante quadriglia eseguita dagli adolescenti in carrozzina di un campo per disabili, l’educatore Rob è costretto a fuggire per trattenere le risate, perché il nostro sorriso più rassicurante può sempre tramutarsi in un ghigno meschino che monta da dentro.
«Era una scimmiottatura, di se stessi e della danza; chi gli aveva permesso di farlo? Tutti i loro sforzi, perfino la loro precisione, equivalevano a questo: erano ridicoli nelle loro macchine ingombranti. Ballavano come parodie di robot. Ballavano come lui. Rob sentì qualcosa dentro di sé, qualcosa che affiorava, che esplodeva. Si piegò su se stesso, le mani strette sulla bocca. Stava ridendo!» (pag. 240)
Pubblicato per la prima volta nel nostro paese nel 1991 (Fantasie di stupro e altri racconti, La Tartaruga), la riproposizione di Dancing Girls: and Other Stories (1977) – questo il titolo originale – s’inserisce nell’operazione di riscoperta italiana di Margaret Atwood, messa in moto dall’uscita del fortunato serial The Handmaid’s Tale.
Rispetto al suo capolavoro distopico, in questa raccolta l’autrice rimane ben ancorata a scenari di realtà quotidiana e a situazioni talmente “piccole” – screzi, tradimenti, solitudini o disillusioni – da risultare potenzialmente universali. Ma per chi avrà il coraggio di riconoscersi nelle vicende narrate, l’effetto potrebbe essere non meno spaventoso del racconto dell’ancella Offred.
(Margaret Atwood, Fantasie di stupro, trad. di Gaja Cenciarelli, Racconti Edizioni, pp. 304, euro 18)
LA CRITICA
La solitudine, la violenza, il tradimento. Concetti che, declinati al singolare, perdono buona parte del loro significato. Esistono molti modi di perdere contatto con l’altro, di subire una prevaricazione, di essere ingannati. In questi quattordici racconti, Margaret Atwood ridefinisce al plurale e problematizza alcune questioni ancora oggi fondamentali, senza paura di rovesciare la prospettiva e di scavare nella parte più ambigua dei suoi personaggi.
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