Cereali al neon
di Sergio Oricci / 10 luglio 2018
Respiro. Il tizio alla porta scruta chi è arrivato per primo. Ne farà entrare alcuni, altri no. C’è un criterio, c’è un senso. È il colpo d’occhio. Deve essere interessante. Strano. E non significa fare entrare soltanto gente strana. Per niente. Varietà con una struttura. Senza una struttura non c’è la possibilità di vederla sgretolarsi a poco a poco. Sciogliersi. Crollare. Si inizia iperstrutturati, e si finisce sparpagliati sul pavimento. A pezzi, frammenti. Minuscoli granelli di esseri umani.
Io aspetto sulla soglia. Sono quasi dentro. E quasi fuori. L’ordine della saletta che precede il caos è teso, sul punto di spezzarsi. Carico di voglia e di endorfine.
C’è sempre più gente. È una cosa buona? Vorrei essere meno ipocrita di così. Tocco le zigulì che ho in tasca e le faccio scorrere tra le dita come grani di un rosario. Spero che bastino per mandare tutti nell’altra stanza. Ho bisogno di vedere gente che balla seguendo il respiro. Come facevamo io e Andrea. Come facevo io.
Un club techno in cui regna il silenzio.
Il nostro I-Doser è essere ancora vivi. Sangue che corre, pressione alta che tamburella sulle tempie. Graffiarsi. Deglutire. Amplificare ogni fiato. Balliamo in un esoscheletro sonoro di cui non ci possiamo liberare.
Prendi le cuffie e ascoltati. Le prime espressioni sono di disagio. Non ti sei mai conosciuto così. Non puoi credere a quello che il tuo corpo produce.
Un piccolo uomo che si sente molto intelligente sta sudando. Gli passo accanto e gli allungo una pasticca. Vorrebbe rifiutarla, ma è troppo intelligente per farlo. Ama l’arte, così la chiama lui. La deve prendere perché l’esperienza sia completa. Forse è la prima volta, forse invece si fa di eroina solo il mercoledì dei mesi dispari. Ne prendo una anche io. La zigulì si scioglie sotto la lingua, e una pellicola di zucchero mi irrita le papille gustative, che adesso avverto gonfie come palloncini. Rosse e puntiformi. Fisso l’uomo. Mani sulle cuffie. Testa all’indietro. Occhi già ribaltati. La zigulì sta salendo, inizia a fare effetto. Era all’amarena. La mia preferita.
La saliva vince su tutto. Deglutire è come ascoltare Demetrio Stratos nelle sue triplofonie. Le cuffie e la zigulì lavorano insieme per amplificarsi e abbracciarti. Mi tornano in mente le notti passate a sedici anni, Lsd e pesciolini d’argento in piazza. Un’immensa vasca da bagno con migliaia di insetti sui gradini come un tappeto luccicante e bellissimo. Movimento, rumore scintillante.
Ora ho intorno teste che oscillano. Sguardi vuoti, proiettati lontanissimo. Viviamo esistenze parallele in cui siamo fatti di luce e pensiero. Adesso che il corpo ci risuona nelle orecchie, affondiamo in bolle di sangue. C’è chi è disgustato da se stesso, lo intuisco dallo sguardo. Altri no: sorridono. Io continuo a sentirmi lontano. Le cose che ho dentro scorrono senza toccarmi.
I colori lampeggiano, ci evidenziano, fotogrammi di luce nel silenzio che ci accarezza fuori, e nel rumore liquido che da dentro ci affoga. Riesco a tirare la testa fuori dall’acqua per un secondo, solo il tempo necessario a respirare. Quando sono sotto, immerso nei miei liquidi, la vita mi attraversa e non riesco a immaginare tortura peggiore e tenerezza più grande.
Non c’è posto per me nei suoi momenti di felicità. C’è nella tristezza, nei momenti in cui il corpo non ha uno spazio suo e ne cerca un altro fuori da sé.
Sto ancora cercando di capire se la sua tristezza fosse abbastanza. Se ci fosse davvero quello che vedevo. Forse era soltanto una proiezione di me. Tutto lo è. Me ne rendo davvero conto solo adesso, quando lo zucchero e la zigulì sono arrivati vicinissimi alla sede della vista e dell’immaginazione.
È così chiaro da essere trasparente. Uno strato di plexiglass davanti agli occhi che invece di ostacolarmi rende i colori brillanti e i contorni netti. Tutto riguarda me. Persone diverse si sciolgono l’una nell’altra per diventare un personaggio dell’esistenza che mi sto raccontando. Ho creduto a me stesso come l’ultimo degli ingenui. Ho sempre saputo di essere naïf, ma si può esserlo fino a questo punto?
Due uomini vestiti di bianco, con il viso truccato di bianco, entrano nella sala. Altissimi. Saltano su trampoli talmente elastici da sembrare tentacoli. Fanno molto KitKat Club. Ma non fanno rumore. Si aggirano silenziosi tra una folla di manichini in viaggio verso un illusorio stato di pace.
Zigulì e silenzio.
Qualcuno è accovacciato contro l’angolo in fondo alla stanza. È una macchia scura in mezzo al bianco, ed è bellissima perché non si riesce a vedere quasi niente di lei. La curvatura della schiena, qualche ciuffo di capelli, cinque centimetri di collo. Poi le spalle, quelle evidenti, saltano fuori dal corpo come due ali di cartilagine. Vorrei accovacciarmi anche io dietro di lei. Diventare una macchia. Farmi assorbire dal muro bianco e sparire.
Il ritmo del mio corpo è irregolare. Aspetto un picco, una vetta, un’eccezione. Respiro pesante, come sempre, il cuore batte veloce. Le risonanze del volto sono sorprendenti. Ma la saliva, la saliva. Fa cose meravigliose, la mia saliva.
Un uomo e una donna nel centro della stanza danzano guardandosi da lontano.
Siamo tutti distanti ma ci sfioriamo lo stesso. Nello spazio vuoto che ci separa, estensioni di noi si incontrano e provano a toccarsi, compenetrandosi una nell’altra, inconsistenti come fumo. Siamo musica liquida in un club in cui nessun altro è autorizzato a entrare. Da adesso in avanti saremo solo noi, fino alla fine. Porte chiuse e invisibilità. Il mondo esterno non può vederci.
Chiudo gli occhi. Ascolto.
Cerco i miei organi. Il cuore è facile, gli altri no. Faccio schioccare la lingua ed è come se avessi rovinato qualcosa di bello. La mia lingua, un ragazzino dispettoso che urla in mezzo a una lezione di yoga.
Il buio è insopportabile, in questa camera anecoica troppo affollata. Riapro gli occhi e sono tutti strafatti. Altro che metanfetamine. Le zigulì ci hanno ridotto a dei coni di saliva che si sciolgono a poco a poco.
Scarpe luminose calpestano il pavimento bianco. Lampeggiano, come i colori che ci avvolgono dall’alto. Mostro il paradenti fluorescente a chi le indossa. Sorride in modo vago. Io rispondo con una smorfia. Mano in tasca, altra zigulì, la lecco e la nascondo subito in bocca. Qualcuno mi vede, si avvicina. Vogliono altre pillole, altre caramelle. Ne distribuisco con il sorriso. Ho le tasche piene di soldi. Dovrei dedicarmi allo spaccio a tempo pieno, invece che a fare cose. Anche il mio corpo si adegua ai miei pensieri, e il ritmo di me diventa più rapido, incalzante.
L’uomo di fronte a me ha gli occhi rossi come un semaforo.
Le strobo si fermano. Un attimo di buio, solo un istante e sento già vibrare il panico. Poi luce. Normale. Bianca.
Là dove dovrebbe esserci il dj ci sono tre lavatrici allineate.
Vedo sguardi storti. Nessuno vuole incrociare quelli degli altri.
Qualcuno a terra. La bocca piena di schiuma. Un uomo enorme lo raccoglie e lo trasporta fuori. Sbatto gli occhi ed è sparito. Vorrei sparire anche io, di nuovo.
Penso ancora a lei. All’immagine residua di lei, che invece di andare svanendo è sempre più chiara. C’è stato un momento. Un momento in cui mi sono sentito strappato. L’avevo appena conosciuta, eppure non riuscivo a gestire le sue assenze.
Due piccoli frammenti di presenza in mezzo al niente. Se ci ripenso adesso, il mio stato d’animo era del tutto sproporzionato rispetto alla realtà, ammesso che ce ne sia una sola. Era la persona più intensa che avessi mai incontrato. Dovrei ringraziare le sue sparizioni. Avrei dovuto scappare, a un certo punto. Invece no.
Ballo. Mi muovo come non ho mai fatto prima. La maglietta è un sottile strato di sudore che finisce a terra e mi lascia scoperto, indifeso. Gratto una costola per sentire l’effetto che fa il ritorno in cuffia. Penso a qualcosa di superficiale, di leggero. A me gonfio di elio e malinconia che salgo verso il cielo tirato in alto dalla mia testa aerostatica.
I quattro angoli sono occupati da persone in meditazione. Io sono schiacciato al soffitto, e vedo solo la mia enorme testa sotto di me.
Vorrei che L. mi vedesse adesso. Leggero, gonfio, lucido e completamente fatto. Vorrei che Andrea fosse qui. Vorrei che tutte le persone che ho incontrato fossero una persona sola. E vorrei che la confusione non se ne andasse mai.
Non merito neanche un quarto d’ora di felicità. Ma di galleggiare sospeso, di scivolare su un cuscinetto d’aria come un hovercraft, questo lo merito. Non sento il peso del mio corpo, ma sento ancora il peso delle sue parole. Pronunciate con leggerezza, pesanti. Non voleranno via insieme alla polvere. Resteranno. Come rocce.
Zigulì alla banana sulla lingua e un velo di uva sul palato molle. Pavimento mobile e mani di luce che arrivano ovunque, tranne che da te.
Sono a terra. Di nuovo. Nessun suono, il mio corpo di nuovo muto. Gli altri sono sconvolti.
5.15 del mattino. Il club chiude. Per sempre. Per un secondo.
Questo passo è tratto da Cereali al neon, il nuovo romanzo di Sergio Oricci, in uscita il 12 luglio per effequ.
Sergio Oricci (Fiesole 1982) ha pubblicato il romanzo Bianco Shocking (edizioni 20090, 2014) più articoli e racconti sulle riviste Tipografia Helvetica, Osso magazine, Exibart, Altrisogni, Rapsodia, Crapula club. Un suo racconto è presente in Odi. Quindici declinazioni di un sentimento (effequ).
Cereali al neon: Un livello dopo l’altro, un’esperienza dopo l’altra, Silvano Rei si trasforma. La sua evoluzione non è graduale, ma si compie attraverso momenti violenti di introspezione e di esibizione. Il suo corpo cambia, e con lui cambia la sua percezione delle cose, e con la percezione delle cose cambiano gli universi, come opere d’arte contemporanea, attraenti e incomprensibili. In questa Odissea digitale, in mezzo a frame ogni volta diversi come i livelli di un videogame Rei non resta mai uguale: è necessario mutare per appartenere a un mondo, per comprenderlo e conviverci, anche se per poco. Attraverso lo specchio virtuale di un visore si susseguono incontri frenetici con bare, corpi, combattimenti, ologrammi, maschere e bianconigli: cosa diventerà, Silvano Rei lo scoprirà a sue spese.
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