L’attualità sconcertante del divino Edgar
Franco Pezzini, “Edgar Allan Poe. La camera pentagonale”
di Claudia Cautillo / 13 luglio 2018
Il divino Edgar, l’americano maledetto, il maestro dell’horror: sono solo alcuni dei tanti appellativi che si tributano alla complessa figura di Edgar Allan Poe (1809-1849), l’intellettuale dissidente più famoso del XIX secolo la cui opera, per la lussureggiante e caleidoscopica molteplicità di aspetti, è ancora ai nostri giorni oggetto di attenzione e studio continui. A questo scopo vale davvero la pena leggere l’ottimo lavoro di Franco Pezzini Edgar Allan Poe. La camera pentagonale nella collana I classici pop delle Edizioni Odoya (2018). Primo volume di una trilogia che coglie il senso profondo di un uomo carismatico, solitario, geniale, che nei quarant’anni della sua breve vita è stato talmente in anticipo sui tempi da essere spesso incompreso dagli intellettuali suoi coevi. Eppure, a tutt’oggi, rappresenta l’eccezionale caso di un evergreen editoriale di raro successo.
Scrittore, poeta, giornalista, recensore, saggista, critico e crittografo, Poe si è cimentato in una moltitudine di generi letterari, passando dall’horror al gotico, dai componimenti lirici al romanzo fino a spingersi alla creazione del poliziesco con il celeberrimo racconto I delitti della Rue Morgue del 1841, consideratone ufficialmente l’origine e l’archetipo.
Ciononostante, o forse proprio a causa dell’eclettismo pirotecnico della sua vastissima produzione, la cui presa sull’immaginario collettivo è tale da aver generato un’infinita serie di rappresentazioni teatrali, film, illustrazioni, fumetti, fiction televisive ed eco di ogni sorta che traggono spunto dalla ricchezza del suo orizzonte immaginifico, gli innumerevoli saggi a lui dedicati sono spesso miscellanee eterogenee ed incomplete che ne tralasciano o travisano lo spessore di fondo.
La trilogia di Pezzini, al contrario, che con La camera pentagonale ci presenta la prima parte della vita di Poe, evita con accortezza i pantani dei luoghi comuni e delle approssimazioni, a cominciare dai malaccorti equivoci sulla dolente influenza che la tragica morte per tisi nel 1847 della moglie bambina Virginia, sposata tredicenne nel 1835, avrebbe avuto su racconti ispirati a giovani donne morenti quali Berenice, la cui prima stesura risale al 1834, o Ligeia, del 1838, uno dei suoi capolavori assoluti e caposaldo della narrativa ottocentesca di lingua inglese. Superficiale eppure diffuso fraintendimento che un semplice controllo delle date sarebbe bastato a confutare.
Ma c’è di più: questo interessante e ben costruito saggio ci offre non tanto una biografia in sé e per sé, quanto piuttosto l’arco di una vocazione per il fantastico nel senso più autentico e moderno, un appassionato invito alla lettura della dimensione problematica, cangiante e mai allineata di un maestro la cui ricchezza di pensiero è capace di mettere in discussione i nostri paradigmi critici, culturali e sessuali, richiamo al quale non si può non rispondere dopo che il leggerlo ci abbia ricordato – o fatto scoprire – quei suoi aspetti meno in luce, quali ad esempio la grande vis comica nel segno di un’ironia a metà tra scherzo e satira, spesso ignorata o sottovalutata dalla critica, che si dipana come un fil rouge attraverso la pirotecnia nera delle sue torbide fantasie oniriche.
Dunque un ritratto completo al di là degli stereotipi, un punto d’osservazione a largo raggio che tiene conto anche delle numerose note e doppi sensi che corredavano i testi delle edizioni originali, riferimenti all’attualità del suo tempo necessari a noi posteri per svelare il senso altrimenti oscuro di alcuni significativi passaggi; mancanza che nel tempo ha portato numerosi critici, per compensazione, ad insistere sulla proverbiale e indiscussa musicalità del suo linguaggio. Una attenzione certamente dovuta il cui effetto, però, è stato quello di consegnarci un Poe soprattutto cesellatore, quasi esclusivamente dedito all’eccezionale bellezza dei suoi arabeschi letterari; alimentando così, una volta di più, quella discordanza tra il Poe autentico e le forzature etichettanti che lo circondano.
Altra novità del libro di Pezzini, a sorpresa, sono le possibili suggestioni che il divino Edgar può aver tratto dalle immagini della peste del nostro Manzoni – che senz’altro conosceva dato che è certa l’attribuzione di almeno un suo articolo elogiativo riguardante I promessi sposi, apparso sul Baltimore Republican del 13 giugno 1835 – così come del Foscolo, alla cui celebre lirica A Zacinto non è da scartare sia debitore di una qualche eco, confermando ulteriormente La camera pentagonale come testo critico accurato, esaustivo, coinvolgente. Un saggio che, andando oltre la sua caricatura come caso clinico o bohémien d’oltreoceano, allarga lo sguardo agli altri mondi di Poe, a cavallo tra aldilà e vita reale, visibile e invisibile. Universi noti ma estranianti, «ricordo inspiegabile di tempi remoti» che, nel muoversi veloce della sua penna sul foglio, proiettano fino a noi dal passato tutta la forza della loro attualità sconcertante.
(Franco Pezzini, Edgar Allan Poe. La camera pentagonale, Vol. I, Odoya, 2018, 480 pp. € 24.00)
LA CRITICA
Molto più di una semplice biografia, è un saggio – al di là dei luoghi comuni su Poe – che, oltre ad un’esegesi accurata dei testi, include ampi riferimenti all’impatto che la sua opera continua ad avere sull’immaginario collettivo contemporaneo.
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